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domingo, 9 de março de 2025

Veneza: A Importante Metrópole Portuária do Renascimento Europeu

Palazzo Cà Foscari 


No século XVI, a República de Veneza surgia na aurora da era moderna com sua cidade e território totalmente estruturados e delineados em todos os seus aspectos essenciais, conforme registrados por duas obras gráficas cruciais: a vista de Jacopo de Barbari, datada de 1500, e o mapa da laguna elaborado por Benedetto Bordone em 1528. O que Veneza realizou foi, acima de tudo, uma obra de embelezamento formal e autocelebração através das contribuições de renomados arquitetos, como Sammicheli (responsável pelas defesas marítimas), Sansovino (Piazza San Marco), Palladio e Longhena (Bacia de San Marco). Embora essas obras de grande magnitude não conseguissem obscurecer a crise política, econômica e social enfrentada pelo estado, especialmente quando a Sereníssima se deparava com o mais grave desafio ambiental de sua história: o assoreamento da laguna causado pela sedimentação dos rios, colocando em risco sua função vital como porto. Veneza é mais do que uma cidade construída sobre a água; é uma cidade nascida dentro dela, uma metrópole anfíbia, erguida com uma clara vocação portuária. Seu principal curso d'água, o Grande Canal, era o coração pulsante dos "docks", onde os edifícios, as chamadas "casas-armazéns", eram estruturas comerciais destinadas à descarga e armazenamento de mercadorias, ao mesmo tempo em que serviam como moradias. Até o final do século XVI, a Ponte de Rialto era a única travessia sobre o Grande Canal e, surpreendentemente, funcionava como uma ponte levadiça. A transição para a atual ponte de pedra, construída entre 1588 e 1591, simbolizou o encerramento de sua função portuária, marcando uma nova era para esse importante curso d'água. Seus três principais núcleos urbanos, São Marcos, Rialto e Arsenale, além de serem centros portuários com funções distintas, representavam a essência desse aspecto. Contudo, todo o tecido urbano, especialmente as regiões periféricas em contato com a laguna, compartilhava dessa característica peculiar, seja em suas margens, docas, estaleiros, armazéns, hospitais ou fortificações. Neste contexto, a planta perspectiva de De Barbari se revela uma fonte de informações valiosas: cais de diferentes tamanhos são nitidamente marcados ao longo da costa dos Schiavoni e ao longo do canal da Giudecca, próximos aos armazéns do Sale, de Santa Agnese, dos Gesuati e especialmente na ponta de Santa Marta. Além disso, feixes de madeira flutuante são visíveis nas proximidades de São João e Paulo. Essa madeira provinha do Cadore, transportada pelo rio Piave e pela laguna ao norte, sendo esta região o ponto de chegada das rotas fluviais de Treviso e do norte. Os estaleiros, onde eram construídos barcos e navios, são destacados com evidência especial dentro das muralhas do Arsenale, em São Moisés, ao longo do Grande Canal, em São Gregório, e nas áreas de Santa Agnese, no Canal da Giudecca, e, por fim, no lado norte, atrás de São Lúcia. De grande importância eram os armazéns. Edifícios desse tipo, de considerável imponência, são visíveis não apenas na xilogravura de De Barbari (os celeiros de Terranova e São Marcos, os armazéns da alfândega e do Sale), mas também em uma bela vista perspectiva do século XVII, a de Alberti de 1686, que apresenta dois edifícios às margens do canal do Arsenale identificados respectivamente como "Casa dos fornos e do biscoito público" e "armazéns públicos", estes últimos formando uma construção equivalente em tamanho ao Palácio Ducal. Para realçar ainda mais a importância de Veneza como porto internacional, na planta de De Barbari, encontramos o "Hospital dos Marinheiros" e os três pontos fortificados da cidade, destacados pelas grandes muralhas ameadas que cercam o Arsenale, a Ponta da Alfândega e a extremidade leste da Giudecca, representando a entrada na cidade vindo dos portos de Malamocco e Chioggia. Como epicentro do comércio do Oriente para a Europa, a Sereníssima destacava-se como o principal polo para cultura, comércio e diplomacia em todo o continente europeu! Isso se devia aos comerciantes, mercadores, armadores e artesãos venezianos, indivíduos com uma mentalidade aberta para outras culturas, e à cidade hospitaleira e curiosa.


sábado, 1 de fevereiro de 2025

Le Mani che Sostengono il Domani


 

Le Mani che Sostengono il Domani


Le colonie italiane nel sud del Brasile, piantate nelle terre vergini della Serra Gaúcha, non erano solo il frutto del lavoro degli uomini, che disboscavano la foresta e aravano il terreno. Le donne, con le loro mani callose e le anime resilienti, erano il fondamento invisibile, il pilastro silenzioso che sosteneva il futuro. Carmela, una di queste donne, con occhi che riflettevano il dolore della distanza e la luce della speranza, era diventata il simbolo stesso di questo sacrificio, di questa dedizione totale che manteneva in movimento gli ingranaggi della vita coloniale.

Da quando avevano lasciato il piccolo villaggio nella provincia di Veneto, il cammino di Carmela era stato un continuo esercizio di adattamento e rinuncia. Durante la traversata che li portò in Brasile, aveva perso sua madre nelle acque agitate del mare, ma non versò una lacrima. Sapeva che la sua responsabilità era più grande del lutto; era la forza motrice della sua famiglia. Una volta giunta alla colonia, il peso della nuova vita ricadde sulle sue spalle senza chiedere permesso. Suo marito, Pietro, affrontava il duro lavoro della terra, ma Carmela, con il ventre che cresceva ad ogni stagione, si occupava di tutto ciò che restava – la casa, i figli, gli animali e, quando necessario, anche il campo.

Carmela si svegliava prima del sole. Con il primo canto del gallo, era già in cucina, preparando il pane per la giornata. I suoi figli dormivano ancora, rannicchiati sotto coperte logore, e Pietro era uscito prima di lei per lavorare nei campi. I suoi piedi nudi, che si muovevano sul pavimento di terra battuta, facevano un lieve rumore che solo lei percepiva. I compiti domestici sembravano infiniti: il fuoco che non doveva mai spegnersi, il latte che doveva essere bollito, il maiale che richiedeva attenzione. Ma era il campo a chiamarla con insistenza.

Lì, accanto a suo marito, il lavoro manuale non faceva distinzione di genere. La zappa pesava nelle sue mani tanto quanto in quelle di Pietro. Ogni solco scavato nel terreno sembrava rubarle un po' di forza, ma lei manteneva il ritmo. Non era solo il corpo a piegarsi sotto il peso delle mansioni; anche la sua mente portava il fardello invisibile delle responsabilità. Era lei a pensare ai figli, che più tardi avrebbero corso tra le file di mais, giocando come se il mondo fosse eterno e immutabile.

Quando nacque la prima figlia, Teresa, Carmela si sentì esausta, ma il suo spirito si riempì di una forza nuova. Lì, tra i dolori del parto e la gioia della nascita, capì che essere donna in quella colonia significava essere il ponte tra il passato e il futuro. La maternità non era una scelta; era un dovere. Teresa, come gli altri suoi figli, avrebbe imparato fin da piccola a condividere le responsabilità della vita coloniale. Carmela, però, non lo vedeva come un'imposizione. Per lei, era l'essenza dell'esistenza, il ciclo continuo del dare e nutrire, che manteneva la ruota della vita in movimento.

La vita seguiva quel ritmo inesorabile. Tra le stagioni di semina e raccolto, la nascita di nuovi figli e le perdite che la colonia imponeva, Carmela continuava a scolpire, giorno dopo giorno, un'esistenza di sacrificio e perseveranza. Pietro, a volte, si perdeva in riflessioni silenziose, osservando quanto sua moglie si sobbarcasse, non solo sulle spalle, ma nel cuore. Sapeva che, senza di lei, non sarebbero arrivati così lontano. Non c'erano medaglie per lei, nessun riconoscimento pubblico. C'era solo il rispetto silenzioso di chi comprendeva il vero peso del suo cammino.

Con il passare degli anni, il volto di Carmela si indurì. Le rughe che comparivano intorno ai suoi occhi non erano solo segni del tempo, ma testimoni delle lunghe giornate, del dolore di seppellire amici e di vedere figli ammalarsi. Eppure, nel suo sguardo c'era una serenità incrollabile, come se sapesse che la sua missione fosse più grande di ogni sofferenza. I suoi figli crescevano forti e la colonia prosperava lentamente, con ogni casa che si alzava dal terreno come se germogliasse dalle mani callose delle donne che vi abitavano.

Quando scendeva la sera, dopo una lunga giornata di lavoro, Carmela riuniva i figli intorno al focolare. Raccontava storie dell'Italia, della vita che un giorno avevano lasciato, non con nostalgia, ma con gratitudine per aver trovato una nuova casa. Sebbene il Brasile fosse una terra di sfide, era anche il luogo in cui aveva messo radici. Ogni pezzo di legno che alimentava il fuoco sembrava risuonare con il ricordo degli antenati, e il calore che emanava scaldava non solo il corpo, ma l'anima della sua famiglia.

Alle feste della colonia, le donne, vestite con abiti semplici, sorridevano e ballavano al suono delle vecchie canzoni italiane. Per un breve momento, dimenticavano le durezze della quotidianità. Ma anche in quei momenti di gioia, gli occhi di Carmela tornavano sempre ai campi, alle responsabilità che attendevano l'alba. Sapeva che, a differenza degli uomini, che potevano riposare dopo il lavoro manuale, il suo impegno continuava. La casa non taceva mai, i figli non smettevano mai di richiedere cure.

Gli anni passarono e Carmela vide i suoi figli diventare adulti. Alcuni si sposarono e formarono le proprie famiglie, altri partirono in cerca di nuove opportunità. La colonia continuava a espandersi e, con essa, l'eredità delle donne che l'avevano costruita. Ora, con i capelli grigi e le ossa stanche, Carmela poteva guardare indietro e vedere tutto ciò che aveva costruito. Ma, anche così, il lavoro non finiva. Continuava a prendersi cura della casa, ad aiutare figli e nipoti, a trasmettere le sue storie e i suoi valori.

Guardando l'orizzonte, dove il sole tramontava dietro le colline, Carmela capiva che la sua vita era quella di tante altre donne che si erano sacrificate in silenzio. Non c'erano monumenti eretti in suo onore, ma i raccolti, le case e le famiglie erano la prova vivente della sua dedizione. Sapeva che il futuro, sebbene incerto, sarebbe stato plasmato dalle mani forti e invisibili delle donne immigrate. Quelle mani che, senza clamore, avevano innalzato il sogno di un nuovo mondo in terre lontane.

La colonia prosperava, ma Carmela e tante altre donne continuavano a essere le forze motrici invisibili. Mentre gli uomini venivano celebrati per le loro conquiste, loro erano le ombre dietro al successo, quelle che garantivano che tutto funzionasse, che la casa fosse sempre un rifugio sicuro. E così, silenziosamente, lasciarono il loro segno indelebile nella storia delle colonie italiane.


segunda-feira, 20 de janeiro de 2025

História de Vida: A Jornada dos Emigrantes



 

História de Vida: 

A Jornada dos Emigrantes


Em 1888, Giovanni e Maria, um jovem casal de agricultores, viviam em Pederobba, um pequeno município na província de Treviso. Com dois filhos pequenos, Luca de seis anos e Sofia de quatro, eles enfrentavam a dura realidade da vida no campo, onde a terra, outrora fértil, começava a falhar. A unificação da Itália trouxe consigo uma crise econômica avassaladora, deixando muitas famílias na pobreza e sem perspectivas.

Giovanni, um homem forte e dedicado, sempre acreditou que o trabalho árduo poderia mudar suas vidas, mas com o passar dos anos, a escassez de trabalho e a miséria crescente abalaram suas convicções. Maria, uma mulher carinhosa e de espírito resiliente, partilhava da preocupação do marido, mas mantinha viva a esperança de um futuro melhor para seus filhos.

Ao ouvir relatos de outros emigrantes que partiram para o Brasil, um país de oportunidades e terras férteis, Giovanni decidiu que era hora de buscar um novo começo. Com o coração apertado, venderam suas poucas posses e se prepararam para a longa jornada rumo à Colônia Dona Isabel, no estado do Rio Grande do Sul.

A viagem de navio foi extenuante e cheia de incertezas. Luca e Sofia, apesar de jovens, sentiam a ansiedade de seus pais e perguntavam constantemente quando chegariam ao novo lar. Giovanni tentava acalmá-los, prometendo que logo estariam em uma terra onde poderiam correr livremente e ajudar na lavoura. Maria, com lágrimas nos olhos, rezava em silêncio, pedindo proteção para sua família.

Após semanas de viagem, finalmente chegaram ao Brasil. A Colônia Dona Isabel, rodeada por montanhas e florestas densas, era um lugar cheio de desafios. As dificuldades iniciais foram muitas: a adaptação ao clima, a falta de infraestrutura e o isolamento. No entanto, Giovanni e Maria, com o apoio mútuo e a força da comunidade de outros imigrantes, começaram a construir sua nova vida.

Giovanni trabalhava de sol a sol, limpando a mata, plantando e construindo sua casa de madeira. Maria cuidava dos filhos e ajudava no que podia, além de ensinar Luca e Sofia a valorizar cada pequeno progresso que faziam. As crianças, envoltas nas tradições da terra natal, cresceram falando o dialeto vêneto, a língua comum entre os imigrantes. A convivência com outras famílias italianas manteve viva essa herança linguística, e o português, embora presente no Brasil, só começou a ser aprendido mais tarde, na idade adulta, quando a integração com a sociedade brasileira se tornou mais necessária.

Com o passar do tempo, a família começou a prosperar. A terra, trabalhada com cuidado e dedicação, começou a dar frutos. A pequena casa, inicialmente modesta, foi sendo ampliada, e a vida, antes marcada pela incerteza, passou a ser pautada pela esperança.

Giovanni e Maria, embora sentissem saudades da Itália, agora reconheciam que a decisão de emigrar havia sido a melhor escolha para garantir um futuro melhor para seus filhos. O sacrifício, as lágrimas e o suor não foram em vão. Na Colônia Dona Isabel, eles encontraram não apenas uma nova terra, mas um novo lar, onde o passado italiano se misturava com o futuro brasileiro, criando uma identidade única e plena de orgulho e realização.



terça-feira, 10 de dezembro de 2024

La Nave della Speranza


La Nave della Speranza


La nebbia aleggiava sul porto di Genova come un velo di lutto, soffocando i sussurri e i singhiozzi di chi si congedava. L'uomo stringeva la mano della moglie, sentendo il freddo del metallo della fede nuziale. Accanto a loro, tre bambini guardavano l'orizzonte, dove l'immenso Atlantico prometteva una nuova vita, mentre sua madre, una vedova conosciuta in famiglia come nonna Pina, teneva gli occhi bassi, nascondendo la disperazione che cresceva nel suo petto. Le strette strade di Vicenza, la piazza dove giocavano, la chiesa dove si erano sposati, tutto ciò rimaneva indietro, ridotto ora a dolorosi ricordi.

Il Brasile, l'El Dorado, era un sogno lontano, venduto dagli agenti di emigrazione come la terra delle opportunità. Ma per l'uomo, ciò che era iniziato come un bisogno urgente di sfuggire alla fame e alla miseria diventava, ad ogni chilometro percorso in mare, una scelta amara, un tradimento silenzioso delle radici che non avrebbero mai smesso di sanguinare.

Durante quel lungo e turbolento viaggio, le speranze si mescolavano alla paura. Le acque agitate dell'Atlantico riflettevano la tempesta di emozioni che invadeva quei cuori esiliati. Le notti erano piene di sogni interrotti, incubi in cui la patria sembrava allontanarsi sempre di più. Nei loro pensieri, una domanda persisteva: avevano fatto la scelta giusta lasciando la terra natia?

Allo sbarco nel porto di Rio Grande, furono accolti da un caldo soffocante e una lingua sconosciuta che sembrava un intreccio di suoni. Il lungo viaggio in barca sul fiume Jacuí fino alla colonia italiana nella Serra Gaúcha era lungo e arduo, attraverso strade inesistenti e sentieri nel mezzo della foresta. La terra sembrava fertile, ma richiedeva un grande sforzo per essere domata, le sfide erano molte e si presentavano in continuazione. L'uomo sentiva il peso del mondo sulle sue spalle; la promessa di una nuova vita si dissolse rapidamente davanti alla realtà brutale di abbattere la foresta, coltivare un suolo ribelle e affrontare le malattie tropicali.

La moglie, sempre forte e silenziosa, si occupava della casa improvvisata con una dignità che impressionava tutti intorno. Manteneva vive le tradizioni italiane, cercava di cucinare piatti che evocavano il sapore di casa, ma il gusto sembrava sempre mancare. La nonna Pina, da parte sua, vedeva i giorni trascinarsi, consumata da una nostalgia che sembrava un cancro nell'anima. Sognava il ritorno, con le strade di pietra, le voci familiari, ma sapeva, nel profondo, che non avrebbe mai più rivisto la sua patria.

I primi mesi nella colonia furono segnati da privazioni e lavoro incessante. I bambini, ancora piccoli, imparavano a convivere con il fango e la durezza della vita rurale. L'uomo e la donna lavoravano duro dall'alba al tramonto, sfidando la foresta, erigendo recinzioni, tentando di domare una terra che si rifiutava di essere conquistata. Di notte, quando tutti dormivano, lui si permetteva di guardare il cielo stellato e immaginare che, da qualche parte lontana, anche la sua Italia fosse sotto lo stesso cielo, aspettando il suo ritorno.

L'inverno nella Serra Gaúcha era implacabile. La famiglia, pur abituata al clima gelido degli inverni del Veneto, sentì il freddo tagliare i loro corpi e le loro anime per la mancanza di un rifugio adeguato. I vestiti erano inadeguati, le case mal costruite lasciavano passare il vento gelido, e le provviste scarseggiavano. La moglie si prendeva cura dei bambini come poteva, avvolgendoli in coperte improvvisate, raccontando storie intorno al fuoco per mantenerli caldi, sia nel corpo che nello spirito.

I giorni passavano lentamente, e la nostalgia diventava un compagno costante. Nelle notti silenziose, la nonna mormorava preghiere in italiano, le sue mani tremanti aggrappate al rosario come un ultimo legame con la terra che tanto amava. I bambini, sebbene giovani, percepivano il peso di quel fardello invisibile che i loro genitori portavano. Crescevano tra due mondi: quello delle storie e delle canzoni italiane, e quello della dura e implacabile realtà brasiliana.

Il tempo trasformò la colonia in un luogo di contrasti. Da un lato, ora lavoravano sulla propria terra, non dipendevano più dai padroni e non dovevano più dividere i raccolti. C'era la promessa di una nuova vita, di prosperità e di un futuro migliore per i figli. Dall'altro, la realtà che ogni giorno lì era una lotta costante, una battaglia contro la natura, contro la distanza, contro la nostalgia. La terra che prometteva tanto, dava poco. I campi che dovevano fiorire con vigne e grano erano coperti di erbacce e pietre.

Ogni lettera ricevuta dall'Italia rinnovava il dolore. Le notizie dei parenti rimasti, le feste e le celebrazioni a cui non partecipavano più, tutto questo serviva a ricordare che erano lontani, molto lontani da casa. Il ritorno, che all'inizio sembrava una possibilità reale, si andava facendo sempre più remoto. I risparmi che avrebbero dovuto essere messi da parte per il ritorno venivano spesi per bisogni immediati: attrezzi, medicine, cibo.

I bambini, crescendo tra la cultura italiana dei genitori e quella brasiliana che li circondava, cominciavano a perdere il legame con la terra degli antenati. Parlavano un portoghese con accento marcato, mescolato con parole italiane che non avevano senso per gli altri coloni. Era un'identità in formazione, un misto di due mondi che non si sarebbero mai completamente integrati.

L'uomo osservava questo processo con tristezza. Vedeva i suoi figli allontanarsi, poco a poco, dalle tradizioni a cui teneva tanto. Il desiderio di tornare in Italia diventava un peso schiacciante. Con il passare degli anni, la realtà che non sarebbero mai più tornati diventava sempre più evidente. L'Italia, con le sue colline verdi e i vigneti, non era più un'opzione. Erano intrappolati in una terra che non li abbracciava, ma che nemmeno li lasciava andare.

Gli anni portarono più difficoltà, ma anche una certa accettazione. La moglie, che all'inizio lottava contro la realtà, ora si rassegnava. Trovava forza nella famiglia, nella certezza che, nonostante tutto, erano insieme. La nonna, nel suo letto di morte, chiese solo una cosa: che, ovunque fossero sepolti, una piccola porzione di terra italiana fosse posta sui loro corpi, affinché, anche nella morte, fossero legati alla terra che tanto amavano.

Col tempo, la colonia cominciò a prosperare. I primi raccolti furono modesti, ma sufficienti per alimentare la speranza. I coloni si aiutavano reciprocamente, creando una comunità in cui lo spirito di solidarietà era forte quanto l'amore per la patria lontana. La chiesa, costruita con sforzi collettivi, divenne il cuore della colonia, dove tutti si riunivano per pregare e mantenere viva la fiamma della fede.

L'uomo, ora invecchiato, guardava la colonia con un misto di orgoglio e tristezza. Aveva messo radici lì, ma sentiva che una parte di sé sarebbe sempre stata altrove. La moglie, ancora forte nonostante gli anni, si prendeva cura della casa con la stessa diligenza di sempre, ma i suoi occhi erano stanchi. I figli, ormai cresciuti, ora lavoravano accanto ai genitori, ma sognavano un futuro diverso, più moderno, meno legato alle tradizioni che avevano sostenuto i loro genitori.

Il sogno di tornare in Italia, un sogno che un tempo era vivo e pulsante, si era trasformato in un ricordo amaro, un lamento silenzioso che avrebbe accompagnato la famiglia per sempre. Tuttavia, la colonia continuava a crescere, e con essa, la nuova generazione che portava nel sangue l'eredità degli immigrati, ma che iniziava anche a forgiare una nuova identità, un'identità brasiliana.

In definitiva, la vita nella colonia italiana del Rio Grande do Sul era una vita di adattamento e trasformazione. Ciò che era iniziato come un sogno di ritorno si convertì in una malinconica accettazione.

sexta-feira, 29 de novembro de 2024

I Taliani e i Veneti ´ntela Colonisassion del Rio Grande do Sul


 

I Taliani e i Véneti ´ntela Colonisassion 

del Rio Grande do Sul


El Rio Grande do Sul el ze stà na tera contesa par le corone de Spagna e Portogallo, e l'espanssion de la so populassion la ga tacà con el segno del Setessento. Dopo tanti ani de lote saguinàrie, la Provìnsia la ze stà definia e la colonisassion la ga tacà in maniera sistemà. Cussì, nel ano 1824 i tedeschi i ze rivà, e dopo, nel 1875, eco le prime famèie de taliani. Con i boni risultati con le colónie tedesche, nel 1875 la Provìnsia la ga ricevù dal Impèrio le colónie de Dona Isabel (poi ciamà Bento Gonçalves) e Conde D'Eu (diventà Garibaldi), lori la ze destinà a recever emigranti taliani, con na gran magioransa de véneti. Dopo, nel Rio Grande do Sul i ga creato la Colónia Fundos de Nova Palmira, pì tardi ribatesà come Colónia Caxias, e la Colónia Silveira Martins, che la ze la quarta in ordine de creassion e cussì la ze diventà conossùa. El primo grupo de emigranti taliani el ze rivà ´ntel Rio Grande do Sul nel 1875 e el ze se sistemà ´ntela Colónia Nova Palmira, ´ntel posto ciamà Nova Milano (sità incòi ciamà Farroupilha). Intel stesso ano altri emigranti taliani e i ga fondà le colónie de Conde D'Eu e Dona Isabel, e già nel 1877 anca la Colónia Silveira Martins, vicin a la sità de Santa Maria de incòi.

I emigranti taliani che i ze vegnesti a le nove colónie del Rio Grande do Sul i vegniva quasi tuti dal nord d´Itàlia (Véneto, Lombardia, Trentino Alto Adige, Friuli Venéssia Giulia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Ligùria). Na statìstica par zona de proveniensa la ne rivela che ghe ze na proporssion de Véneti 54%, Lombardi 33%, Trentini 7%, Friulani 4,5% e altri 1,5%. Cussì come se pol veder, i véneti e i lombardi lori i ga constituì el 87% de i emigranti stabilidi ´ntela Provìnssia del Rio Grande do Sul.

Co la promulgassion de l'abolission de la schiavitù in Brasil, i emigranti taliani i ze stà ciamai par sostituir quela man de òpera de schiavi, che, na volta lìbari, lori no i voleva pì laorar par i veci paroni. In pochi ani, i teritori destinà a lori par colonisassion i ze stà tuti ocupà, obligando quei che rivava ancò e anca i fiòi de i pionieri a catare nove tere lontan da le prime colónie. Cussì i ga nato altre colónie, sempre con la predominansa de i véneti: Alfredo Chaves, Nova Prata, Nova Bassano, Antônio Prado, Guaporé e pì tarde, Vacaria, Lagoa Vermelha, Cacique Doble, Sananduva e Vale do Rio Uruguai, come Casca, Muçum, Tapejara, Passo Fundo, Getúlio Vargas, Erechim, Severiano de Almeida.



segunda-feira, 25 de novembro de 2024

Erechim el Campo Picinin de i Biriva e de i Imigranti Véneti


 

Erechim el Campo Picinin de i Biriva e de i Imigranti Véneti


Erechim, anca pì coreto, Erexim, faseva parte del vasto comune de Passo Fundo, uno dei pì grandi del Stato do Rio Grande do Sul, che i ze rivà da Carazinho fin a Marcelino Ramos.
El nome el ze vignesto de la lèngoa dei ìndios Caingangue, che i ze stà lì e che vol dir “Campo Picinin”.
Biriva el z'era el nome che quei stessi ìndios ghe dava ai foresti, ai pochi bianchi che i conossea e che i zera in quele tere. Fin al ano 1910, Erechim el zera el 7º Distrito de Passo Fundo e la sede la se ga trovà ´ntela vila de Capo-Erê.
Da quela data, el ze passà a far parte del 8º Distrito de Passo Fundo, con la sede ´ntela Colónia Erechim, che adesso ze el comune visin de Getúlio Vargas.

La atual sità de Erechim, che a quel tempo la se ga ciamà Paiol Grande, la zera 'na foresta grossa, quasi desabità, piena de araucàrie e altre grosse piante centenàrie, ´ndove che i se ga riparà qualche disendente de veci bandeiranti, scampà de la giustìssia, briganti e altri che son scampà da la rivolussion del 1893.
El nome Paiol Grande la ze dovù a 'na vècia costrussion che servìa come depòsito de erva-mate, situà là visin del Desvio Giaretta de incòi.

La marcassion de le tere la ze tacà ancora ´ntel 1904, con el laor de costrussion de la Ferovia tra Santa Maria a Marcelino Ramos.
El crèsser de Erechim la ze stà sgoelto, con l’arivo, za dal 1918, quando el comune la ze stà fondà oficialmente, de 'na gran quantità de italiani, de i quali la grande parte i zera vèneti, sopratuto che lori i vigniva de le cosidete “tere vècie” come Caxias, Bento Gonçalves, Garibaldi, Alfredo Chaves, Flores da Cunha, Antônio Prado, Guaporé, Veranópolis, e altre.

Queste sità, con l’arivo de miliaia de imigranti e dopo de i so fiòi, le fasea sì che le prime colónie le se vedeva in pressa piene. Alora la ze stà nessessàrio sercar posti novi dove stabilirse.
Ze pròprio cussì che la ze sussesso in Erechim e ´ntela atual Região do Alto Uruguai, conossù anche come le “tere nove”, che la ga ressevesto i dissendenti de i primi imigranti véneti rivà in Brasile.



quarta-feira, 20 de novembro de 2024

La Religion Inte le Colónie Taliane del Rio Grande do Sul


 

La Religion Inte le Colónie Taliane del Rio Grande do Sul


I emigranti taliani i zera catolighi par gran parte, e, da quando i zera ancora in Itàlia, i praticava la fede in un modo pròprio, con la messa e i canti in latino, i preti che i ghe meteva paramenti vistosi, la gran frequensa a i sacramenti e e prossission con gran partecipassion de tuti i parochiani.
El prete el zera un gran capo per i emigranti e 'ntel cor de la comunità el gavea un forte control sula zente, el scoltea, conseiava, e el ghe dava na man quando podea, sercando sempre de minimisar el gran sofrimento che sti povareti i fasea, sopratuto ´ntei primi ani in sta nova pàtria, lontan de la tera natìa e de I so cari che i ze restà indrìo.
La religion la imparava pressiosi insegnamenti morali, che esaltava l'onor, la mantenensa de la parola data, el laoro come forma de viver, la castità fin al matrimónio, la passensa, la resignassion davanti a i desastri e l'amor par el pròssimo.
Ntei primi ani de l'emigrassion ´ntel Rio Grande do Sul, assestai nte le vàrie colónie fata par resèrvene, situai in meso a le foresti densse, no i gavea preti. La nessessità de adaparse la zera sempre pì forte par ricostruir el mondo religioso che lori i conossèa. Sta tradission la zera sempre pressiosa, e la ghe rivà ´nte la vita de i emigranti. Come la fede, la devossion de la famèia e de ciascun restava sempre salda, 'nte le so case zera usansa che, tornài dal laoro la sera, i recitasse tuta la famèia la corona, spesso in ginòci davanti a na stampa o na imàgine de un santo de devossion che i gavea portà da la tera natìa.
I ricordi de le matine de doménega ´nte le so paese natìe, l'incontro alegre con i amissi, i gavea fato riviver 'na usansa antica, che presto la zera stà adotà ´nte le diverse colónie, par vegnir fora de la mancansa de cese e de preti. La zera sta con el costruir crosei e pìcoli capitèi, fata come quei lassà in Itàlia. Ste costrussion le zera prima de le capele e de le cese, che ancò i ghe vorèa ancora del tempo par nasser. In sti capitèi e ´nte le capele i emigranti i podèa catarse un spasio pì acomodante par el consòlo spiritual e el ritrovo con el divino.
Con el tempo, i gavea idee par construire na capela, tante volte circondà da dispute par la scelta del posto ndove construirla, del santo patron a cui dedicarla o del material da doprar. Le prime le zera tuti fate con longhe tavole de legno e, pian pian, con le ghe racoltea pì schei, i ghe fasea un campanile a fianco. Anca visin a la capela, i pensava de far un espasio par custruir un cimitero. La gestione de sto complesso religioso e la preparassion de le feste la zera tuta fata da i fabrissieri, un grupo de òmeni eleti con el voto de la comunità. Sti fabrissieri, oltre a conservar e mantegner i ogeti sacri, lori i gavea anca la responsibilità de far miglioramenti ´nte la cesa e nel cimitero, anca con le donasion de i parochiani. La capela o la ceseta la zera pronta, ma, el prete lori ancora no i lo gavea, e quando el zera disponibile, no el podea vegnir che na o do volte al ano. Ghe jera tante capele e cese ´nte le zone de colonie taliane ´ntel Rio Grande do Sul, e in tute i preti i zera pochi, sensa contare che le distanse tra una e l’altra le zera grandìssime, rendendo difìcile el viàio del prete. Par superar la mancansa de un prete, el rosàrio de doménega el zera recità da un laico scelto da la comunità. Anca la catechesi la zera imparà da uno che gavea pì instrussion e conossensa. Le cerimonie religiose de la setimana santa e i funerài i zera presiedesti da qualcun con esperiensa, magari come sacrestan in Itàlia. Tocava anca a sto capo religioso de preparar la zente al momento de la morte e, fora de la confession, el fasea i riti.
Le capele no gavea solo la funsione de culto, le zera doperà anca come aule par far scola e come sentro de encontro par la comunità.



terça-feira, 19 de novembro de 2024

Morosar e Sposar ´ntele Colónie Taliane del Rio Grande do Sul

 


Morosar e Sposar ´ntele Colónie Taliane

del Rio Grande do Sul


El casamento el zera uno dei momenti pi importanti ´ntela zona coloniale del Rio Grande do Sul. Con el casamento se mantegneva i valori de la tera d'origine e se conservava i usi, i costumi e le tradissioni de la famèia portà da i pioneri véneti. El casamento el zera el fator principal che ga permesso a i imigranti, specialmente ai òmini, de fermarse ´ntei sti posti lontan e de criar qua ´na nova comunità stàbile, sempre tendo come esempio quela de ´ndove lori i ze vegnesti.

Maritarse e meter su famèia el zera el desìdero comune de ogni parte de la campagna véneta. El moroso, perìodo de preparativi graduali par conossarse tra i zóveni e anca tra le do famèie, el zera el primo passo necessàrio che, dopo un tempo variabile, arivava la promission, la fase che venia prima del casamento, che dovea durar par tuta la vita.

El filò ´ntele stalle, i laori in comun par la racolta, importanti costumi de condivision portà da la tera d'origene, e dopo, pì tarde, le messe, i zera i momenti par far conossarse i zóveni de famèie visin e far nasser el moroso qua ´ntel Rio Grande do Sul.

I zóveni lori i zera considerài promessosposi solo dopo che i lori genitori i dava lori l'aprovassion, e alora el zòven el podéa andar a casa de la morosa, con visite le doménighe de pomerìgio.



segunda-feira, 18 de novembro de 2024

La Medissina sensa Medighi ´ntele Colónie Taliane del Rio Grande do Sul

 


La Medissina sensa Medighi ´ntele Colónie Taliane del Rio Grande do Sul


La vita ´ntele colònie taliane del Rio Grande do Sul la zera segnalà da grande dificoltà, mássime ´ntei primi ani dopo che i migranti i zera rivà. Quando i ga rivà a far le prime case, le zera tanto distante una da l'altra, isolate in meso a 'na selva spessa, con na pìcola roça intorno a la casa, e no ghe zera strade, solo sentieri streti che i tagliava 'sta mata scura, ndove comandava la scurità e i rumori misteriosi de i animali salvàdeghi. I loti i zera grande spassi de tera, con monti, presipissi e, a volte picin fiumi. I vissin i se trovava caminando par 'sti sentieri, che lori i ga ciamà "lìnie". La sità pì vissina la zera distante chilometri, e, par rivar là, i ghe volea ore de caminata o de viàio con carosse in condission no pròprio bone. Oltra a le distanse enormi, le strade le zera de qualità pèssima, poco de pì che un camino e le risorse medighe praticamente no ghe zera. Medighi lori i zera figure rare, specialmente ´ntei primi ani, e tanti coloni i passava ani interi sensa vèder gnanca un professional de salute.

In 'sto scenàrio difìcil, la se ga svilupà 'na medicina domèstica, basà su conosense popolari portà da l'Itàlia e su sapere imparà da le populassion locali, come i ìndios e i neri ex schiavi che i ze viveva vissi de la colònia. L'uso de piante medighinali la zera ben difuso e adatà par curar diversi tipi de malatie. De qua, le ga vegnù fora figure importanti, come le levatrici, ciamà da i coloni “comari” o ancora  “cegogne”. Tante de lore le gavea 'na vèssia tradision de famèia de vàrie generassion, assistendo le done durante la gravidessa e al momento del parto. L'aiuto par fà nasser, però, no el zera sempre fàssile, e 'ste levatrici lore le sapeva ancòi cofà gestir situassion difìcili e complicassion con mètodi rudimentar, ma eficassi par quei tempi.

'N'altra figura essensial ´ntele colónie le zera el “giustador de ossi”, conossùo ´ntela zona coloniale taliana come giusta ossi. 'Sto laoro el zera anca 'na tradission vècia portà d´Itàlia, passà de padre al fiol come 'na eredità de famèia. I giusta ossi lori i gavea la abilità de imobilisar frature, contusion, sistemar storte e tratar distenssion muscolari doprando le man e remedi naturai, come i implastri de erbe. 'Sto sapere el zera fundamental par i coloni, che de frequente i se acidentava ´ntei lavori de campagna e in costrussion, indove i strumenti pesanti e le condission rustighe i favoria ferite e traumi.

Anca le done che sapeva far rimèdi lore le zera ben richieste, e lore laora fin ancò in tante comunità. 'Ste done, che le gavea un sapere empírighe, de sòlito imparà dai "caboclo" o da i ìndios, le ciamava par curar le malatie stimolando 'na sorta de autosugestion mìstica ´ntei passienti. In riti che i combina litánie, orassion, infusioni de erbe, bagni e fumigassion, queste done le creava 'n ambiente de conforto spiritual e speransa, essensial par 'na populassion che gavea mancansa de risorse medighe. In princìpio, 'ste figure de cura popular, done e anca òmeni, i zera de sòlito mestisi, "caboclos" e anca neri, descendenti de schiavi liberai, che i vivea visin a le colónie e i dava 'n aiuto a i migranti.




sábado, 16 de novembro de 2024

L'Emigrassion Trevisana in Brasil


 

L'Emigrassion Trevisana in Brasil


Drento un arco de cento ani, tra el 1876 e el 1976, ze partì da la Regione del Véneto ben pì de tre milioni de persone, de un totale nassionale de 27 milioni. Con i dati che ghe se, el Véneto ze in prima posisione tra le region vénete par el volume de emigranti.

In Provìnsia de Treviso no ghe ze dati de l’emigrassion par tuti sti ani, ma se sa che tra el 1876 e el 1900, verso la fin del sècolo, el númaro de trevisani che i ga dovesto emigrar la zera un quarto de la so popolassion entiera, con percentuai ancora pì alti in le zone de pianura.

In la seconda metà del Otossento, le condission de vita dei pìcoli contadini véneti le ze pegiorà notevolmente par na sèrie de cause sussedeste quasi tute inseme:

· L'aumento natural de la popolassion, per mèrito de meiorie in l’igiene, specialmente durante el domìnio austrìaco sul Véneto, e con na natalità sempre alta.

· La calada de i recavi dei picoli e medi contadini, como che sussedeva in tuta l’Europa, a causa de la brusca calada dei prezzi de i prodoti agrìcoli importà a presi che i zera molto pì bassi del custo de produsione in Itàlia. Disastri de colti par via del maltempo, tra sissità devastanti, aluvioni in pianura e smotamenti in montagne. Le malatie nei campi con la perdita de le vendemie e el baco da seda.

· L'aumento de la disocupassion, spècie par via de nuove machine, anca se ancora lente, che sostituiva i laoradori a brasso, e el svanir de veci mestieri.

Ampie fasce de la popoassion la zera soto el livelo de sussistenza, como che mostra el alto nùmaro de maladi de pelagra, malatia causada da la mancansa de vitamine che doveria vegnir da i cibi come carne, late e derivai, mentre la dieta la zera basà quasi esclusivamente su la farina de granoturco, par la poenta. Sta malatia la zera difondesta in tuto el Véneto. Par i contadini e zornalieri ridoti in misèria, no ghe restava altro che sfiorir o scapar.

Nel Otossento i paesi de l’Amèrica del Sud i ga fato na polìtica de colonisassion de le so vaste tere ancora disponibili, usando manodopera europea, a custo baso, parchè in quel perìodo ghe zera tanto disocupassion.

La traversà del oceano sconossesto, drio na metà sconossesta in Amèrica, i zera càrica de incertesse e de imprevisti de tute le sorte, da la partensa dal porto. Ritardi, documentassion incompleta, burocrassia infinida, i problemi de promiscuità e sovraafolamento de la tersa classe. Al sbarco, altri problem i ghe aspetava: quarantena, tanti controli mèdici e interogatori da l’autorità del goerno local. Sta situassion la ze andà meiorando solo dopo la seconda guerra mondiale, quando che i véneti i ze partì verso el Canadà e l’Austràlia. Lì, tuti i documenti i zera a posto e ben organisà.

Anca quando che la quarentena la finiva, no voleva dir che sùbito i ghe dava laoro, come i ghe ga dito i agenti recrutor prima de partir. I posti ndove che i ghe destinà i ghe zera ancora tanti chilometri a sud del porto, e ghe volìa ancora zorni de viàio in navi par rivarghe. In sti porti de rivà, i dovea ancora spetar altri mesi de trasporto, come navi fluvial, treni o lunghe marce a piè o in carose tiràe da boi, par rivar a le colónie. Ma no i zera ancora la fin del viàio: par rivar ai campi i dovea ancora desfà la floresta, piena de perìcoli e rumori de bèstie sconosseste.

Un volta i ze rivà a la loro tera, la prima roba che i dovea far la zera un casoto de tronchi, coperto de rami, par ripararse dal fredo, de  le bèstie feroce e le serpenti che, la note, i ghe girava drio l’acampamento. La tera bisognava prepararla par i campi, e alora scominssiava a sfalciar i àlbari alti e spessi. Con el fogo, la floresta se trasformava pian pian in un orto ndove cresceva le prime colti. I casoti dopo i zera sostituì pian pian da case grandi de legno, con scàndole, case sòlide e sostenude da sassi che forma el fondaco, un spaso fresco e grande par conservar la roba de la stagione.



quinta-feira, 14 de novembro de 2024

La Dona e la Spartission de la Tera in Zona de Colonisassion Taliana nel Rio Grande do Sul


La Dona e la Spartission de la Tera in Zona de Colonisassion Taliana nel Rio Grande do Sul


Ne le zone coloniai taliane del Rio Grande do Sul, la spartìa dei beni tra i fiòi e le fiole faceva parte de na tradission che seguiva regole pròprie. La tera, el ben più presioso, zera quasi sempre destinà ai fiòi mas’ci. Par lori, el toco de tera era un’eredità garantìa, tanto che quando un fiol se sposava, el zera sovente premià con i campi da coltivar e con na colónia, dove metèr su casa.

La dona imigrante taliana, con 'l so laoro stragrando, laorava spala a spala co 'l òmo, par mantegner la proprietà e far crèssere i tanti fiòi. Lei la ze stà responsàbile direta par el sussesso de l'imigrassion taliana in ‘ste tere gauchas e par conservar la cultura de la so tera natal, che la zera trasmessa ai fiòi, la ze rivà fin ai nostri dì.

No stante tuto sto impegno, a la dona no ghe vegniva quasi mai riconossùo el dirito a la tera, o, quando 'sta roba capitava, el so parte ne la spartission l'era quasi sempre minore de quel che rivea l'òmo. La tera rara volta faceva parte de l'eredità de la dona imigrante in zona coloniale taliana del Rio Grande do Sul. Se gavea fradèi, per eredità, lei no diventava parona de gnanca un tochetin de tera, se no quando la restava védova o, se ancora scapola e con i veci morti, la restava fiola ùnica, senza fradèi.

Quando capitava la morte de uno de i genitori, la proprietà coloniale, lassada come ùnica eredità, la zera divisa fra i fiòi mas’ci. E quando ‘sta spartission, che dava poca tera a cada uno, lori i la sistemava spesso fra de lori, ma no sempre in pase, comprando el toco de l’altro per cavar l'ostacoli. Par evitar ste desavenze, e se la famèia gavea i messi giusti, i veci cercava, ancora che lori zera vivi, de catar tera par i fiòi mas’ci, uno a uno, man man che i se maridava e formava la so famèia.

Par le tose, quando lore i se sposava, ghe dava en dota, ogni tanto na màchina de cusir e, quasi sempre, na muca da late. Le famèe più riche ghe catava già la tera par i fiòi quando ancora i zera putèi, ani prima che i pensasse al matrimónio. Qualche volta, in famèe pì riche, ghe dava anca due bò ancora picinin, o vedèi, che lori i adestrava pian pian par vardàrli pronti par el futuro, quando lori i sarà òmini paroni de famèia.

La spartission de i beni lassài per eredità se basiava su na division disegual che quasi mai favoriva la dona. Quando un fiol se sposava, el ricivea un toco de tera, quasi sempre una colónia, par laorar e farse la so casa. I genitori la comprava quasi sempre de un visino e, quando no l’aveva, i comprava anca in posti pì lontan. La fiola, poareta, se la gavea fortuna, ricevea qualcosa per la dota: coverte, tovaglie, robe par la cusina, ogni tanto una màchina de cusir o una muca da late. El interessante el ze che parte de ‘sta dota la cusìa lore stesse, con ani de fatiche de note, nei momenti lìbari, spesso tante volte pagà con i pochi schei messi da parte e risparmià con i laoreti par qualquedun o con el guadagno de qualche venda al marcà de ovi o altre robe da lore coltivà.

domingo, 15 de setembro de 2024

As Mãos que Sustentam o Amanhã

 


As Mãos que Sustentam o Amanhã


As colônias italianas do sul do Brasil, fincadas nas terras virgens da Serra Gaúcha, não eram apenas fruto do trabalho dos homens, que desbravavam a mata e aravam o solo. As mulheres, com suas mãos calejadas e almas resilientes, eram o alicerce invisível, o pilar silencioso que sustentava o futuro. Carmela, uma dessas mulheres, de olhos que refletiam a dor da distância e o brilho da esperança, se tornara o próprio símbolo desse sacrifício, dessa entrega total que mantinha as engrenagens da vida colonial girando.

Desde que haviam deixado a pequena aldeia na província de Veneto, a jornada de Carmela fora um exercício constante de adaptação e renúncia. No navio que os trouxe ao Brasil, perdera a mãe para o mar agitado, mas não derramou uma lágrima. Sabia que sua responsabilidade era maior do que o luto; era a força motriz de sua família. Ao chegar à colônia, o peso da nova vida recaiu sobre seus ombros sem pedir licença. Seu marido, Pietro, enfrentava o trabalho pesado na terra, mas Carmela, com seu ventre crescendo a cada estação, cuidava de tudo o que ficava para trás – a casa, os filhos, os animais e, quando necessário, também o campo.

Carmela acordava antes do sol. Com o primeiro cantar dos galos, já se encontrava na cozinha, preparando o pão para o dia. Seus filhos ainda dormiam, encolhidos sob mantas puídas, e Pietro saíra antes dela para os campos. Seus pés descalços, movendo-se no chão de terra batida, faziam um leve ruído que apenas ela notava. As tarefas domésticas pareciam intermináveis: o fogo que nunca podia apagar, o leite que tinha de ser fervido, o porco que necessitava de atenção. Mas era o campo que a chamava insistentemente.

Lá, ao lado do marido, o trabalho braçal não distinguia gêneros. A enxada pesava em suas mãos tanto quanto na de Pietro. Cada sulco aberto no solo parecia roubar um pouco de suas forças, mas ela mantinha o ritmo. Não era apenas o corpo que se curvava ao peso das tarefas; sua mente também carregava o fardo invisível das responsabilidades. Era ela quem pensava nos filhos, que mais tarde iriam correr entre as fileiras de milho, brincando como se o mundo fosse eterno e imutável.

Quando a primeira filha, Teresa, nasceu, Carmela sentiu o corpo esgotado, mas seu espírito se encheu de uma força nova. Ali, no meio das dores do parto e da alegria do nascimento, ela compreendeu que ser mulher naquela colônia era ser ponte entre o passado e o futuro. A maternidade não era uma escolha; era um dever. Teresa, como seus outros filhos, aprenderia desde cedo a partilhar das responsabilidades da vida colonial. Carmela, porém, não via isso como algo imposto. Para ela, era a essência da existência, o ciclo contínuo de dar e nutrir, que mantinha a roda da vida em movimento.

A vida seguia esse ritmo inexorável. Entre as estações de plantio e colheita, o nascimento de novos filhos e as perdas que a colônia impunha, Carmela ia esculpindo, dia após dia, uma existência de sacrifício e perseverança. Pietro, por vezes, se perdia em reflexões silenciosas, observando o quanto a esposa carregava, não apenas em suas costas, mas no coração. Ele sabia que, sem ela, não teriam chegado até ali. Não havia medalhas para ela, nenhum reconhecimento público. Havia apenas o respeito silencioso de quem compreendia o verdadeiro peso de sua jornada.

Com o passar dos anos, o rosto de Carmela endureceu. As rugas que surgiam ao redor dos olhos não eram apenas sinais da idade, mas testemunhas das longas jornadas, da dor de enterrar amigos e de ver filhos adoecerem. Ainda assim, havia em seu semblante uma serenidade inabalável, como se ela soubesse que sua missão era maior do que qualquer sofrimento. Seus filhos cresciam fortes, e a colônia prosperava lentamente, com cada casa erguendo-se do solo como se brotasse das mãos calejadas das mulheres que ali viviam.

Ao cair da noite, depois de um longo dia de trabalho, Carmela reunia os filhos ao redor da lareira. Contava histórias da Itália, da vida que um dia havia deixado para trás, não com nostalgia, mas com um olhar de gratidão por ter encontrado um novo lar. Embora o Brasil fosse uma terra de desafios, era também o lugar onde ela havia criado raízes. Cada pedaço de madeira que alimentava o fogo parecia ressoar com a lembrança dos antepassados, e o calor que emanava aquecia não só o corpo, mas a alma de sua família.

Nas festas da colônia, as mulheres, vestidas com seus trajes simples, sorriam e dançavam ao som das antigas canções italianas. Por um breve momento, esqueciam-se das durezas do cotidiano. Mas, mesmo nesses momentos de alegria, os olhos de Carmela sempre se voltavam para os campos, para as responsabilidades que aguardavam o amanhecer. Ela sabia que, ao contrário dos homens, que podiam descansar ao final do trabalho braçal, seu labor continuava. A casa nunca ficava em silêncio, os filhos nunca paravam de exigir cuidados.

Os anos se passaram, e Carmela viu seus filhos se tornarem adultos. Alguns casaram-se e estabeleceram suas próprias famílias, outros partiram em busca de novas oportunidades. A colônia continuava a se expandir, e com ela, o legado das mulheres que a construíram. Agora, com os cabelos grisalhos e os ossos cansados, Carmela podia olhar para trás e ver tudo o que havia construído. Mas, ainda assim, o trabalho não terminava. Continuava a cuidar da casa, a ajudar os filhos e netos, a transmitir suas histórias e valores.

Olhando para o horizonte, onde o sol se punha atrás das colinas, Carmela compreendia que sua vida era a de tantas outras mulheres que haviam se sacrificado em silêncio. Não havia monumentos erigidos em sua homenagem, mas as colheitas, as casas e as famílias eram a prova viva de sua dedicação. Ela sabia que o futuro, embora incerto, seria moldado pelas mãos fortes e invisíveis das mulheres imigrantes. Essas mãos que, sem alarde, ergueram o sonho de um novo mundo em terras distantes.

A colônia prosperava, mas Carmela e tantas outras mulheres continuavam a ser as forças motrizes invisíveis. Enquanto os homens eram celebrados por suas conquistas, elas eram as sombras por trás do sucesso, as que garantiam que tudo funcionasse, que o lar fosse sempre um refúgio seguro. E assim, silenciosamente, elas deixaram sua marca indelével na história das colônias italianas.



domingo, 8 de setembro de 2024

Sob o Céu do Veneto: A Jornada de uma Família de Agricultores

 


O sol se punha sobre as montanhas dos Dolomitas, tingindo o céu de um laranja vibrante. Em um pequeno município na província de Belluno, na fronteira norte do Vêneto, a família Benedettini reunia-se ao redor de uma mesa de madeira antiga, marcada pelo tempo e pelo uso. Giovanni Benedettini, o patriarca, era um homem de mãos calejadas e olhos que guardavam séculos de história. Ele observava seus filhos, Rosa e Pietro, e sua esposa Augusta Aurora, sentada silenciosa com o rosário entre os dedos. “Era diferente no tempo da Serenissima”, murmurou Giovanni, quebrando o silêncio. “Nós almoçávamos e jantávamos. Tínhamos pão e vinho, e o trabalho na terra nos sustentava. Mas agora, sob os Savoia, mal conseguimos uma refeição. A fome bate à nossa porta, e a terra, que antes nos dava vida, agora parece nos condenar.” Maria assentiu, seus olhos refletindo a mesma preocupação. Ela sabia que a mudança estava se aproximando, uma mudança que seria definitiva. A memória da Serenissima Republica de Veneza ainda era viva na comunidade, uma época de relativa prosperidade e dignidade, antes da invasão de Napoleão e a subsequente dominação austríaca. Sob Francisco José, o imperador “Cesco Bepi” como os venetos o chamavam, a vida se tornou mais difícil, mas ainda suportável. Com a unificação da Itália e a anexação do Vêneto ao Reino da Itália sob a Casa de Savoia, a situação deteriorou-se rapidamente. As promessas de liberdade e prosperidade eram mentiras vazias; o que restou foi a miséria. A crise econômica se agravava, e a família Benedettini, como muitos outros pequenos agricultores e artesãos, se via à beira do colapso. A terra que Giovanni cuidava com tanto zelo pertencia a um grande senhor que vivia distante, em Veneza. O gastaldo, encarregado da administração, era implacável e não tolerava qualquer falta. As dívidas se acumulavam, e a fome se tornava uma companheira constante.

Em uma manhã fria de outubro, durante a missa dominical, o padre Don Luigi, um homem respeitado por toda a aldeia, subiu ao púlpito e, com uma voz que ecoava pelas paredes da igreja, não mediu as palavras e mesmo contra os interesses dos ricos proprietários de terras, incentivou a emigração. “Meus filhos, a nossa terra é abençoada, mas os tempos são difíceis. Deus nos deu coragem, e devemos usá-la. Há terras além-mar, terras que prometem uma vida melhor. A fome não deve ser o nosso destino. Emigrem, encontrem nova vida. Essa é a vontade de Deus.” As palavras do padre reverberaram no coração de Giovanni. Ele sabia que permanecer significava a morte lenta da sua família, mas partir era uma aposta no desconhecido. Muitos proprietários de terras, contrários a emigração, pois, ficariam sem mão de obra ou, pela falta, teriam que pagar muito mais por ela, faziam circular entre o povo, boatos e desinformações que criavam temor e medo naqueles que estavam querendo emigrar. Contudo, naquela noite, ao olhar para os rostos de seus filhos, ele tomou uma decisão. Eles deixariam o Vêneto.

A decisão de emigrar não foi fácil, mas o destino estava traçado. Em uma manhã nebulosa, a família Benedettini juntou seus poucos pertences e se preparou para a longa jornada até o porto de Gênova. Ali, embarcariam em um navio rumo ao Brasil, um país do qual sabiam pouco, mas que prometia novas oportunidades. Antes de partir, Giovanni foi até a igreja. Ele se ajoelhou diante da imagem de São Marco, padroeiro de Veneza, e rezou em silêncio. Sentia o peso de séculos de história sobre seus ombros, mas também sabia que não havia outra escolha. O dia da partida foi marcado por lágrimas e abraços apertados. A pequena aldeia se reuniu para se despedir dos Benedettini. Amigos e vizinhos ofereciam orações e promessas de cartas. A tristeza era palpável, mas havia também uma centelha de esperança nos olhos daqueles que partiam. “Não esqueçam quem vocês são, onde nasceram. Levem o Vêneto no coração,” disse o velho Paolo, o amigo mais antigo de Giovanni, enquanto apertava a mão do patriarca.

A travessia do Atlântico foi longa e cheia de desafios. No porão do navio, os Benedettini compartilhavam um espaço apertado com dezenas de outras famílias, provenientes de várias regiões da Itália, todas em busca de uma nova vida. O mar era implacável, e muitos dias se passavam sem que a luz do sol penetrasse as profundezas do navio. Rosa, a filha mais velha, adoecera durante a viagem. Maria fazia o possível para cuidar dela, mas a falta de médicos e as condições insalubres tornavam a recuperação difícil. Em momentos de desespero, Giovanni questionava sua decisão de partir, mas Maria o lembrava das palavras de Don Luigi: “Essa é a vontade de Deus.”

Finalmente, após semanas no mar, avistaram a costa brasileira. O porto de Santos se estendia diante deles, uma visão que misturava alívio e incerteza. Era o início de uma nova vida, mas também o fim de tudo o que conheciam. O Brasil os recebeu com um calor sufocante e uma vegetação exuberante. A adaptação foi difícil. A língua, os costumes, a própria terra eram estranhos. Contudo, os Benedettini eram resilientes. Giovanni encontrou trabalho em uma fazenda de café, enquanto Maria cuidava dos filhos e da pequena horta que conseguiam manter. O trabalho era árduo, mas pela primeira vez em anos, havia esperança. Com o tempo, outras famílias italianas se uniram a eles, criando uma comunidade onde as tradições do Vêneto eram preservadas. Em meio às dificuldades, havia também a alegria das colheitas, das festas religiosas, e do nascimento de novos filhos, que traziam consigo a promessa de um futuro melhor.

Rosa recuperou a saúde e, anos depois, se casou com um jovem agricultor também vindo do Vêneto. Pietro, o filho mais novo, cresceu forte e cheio de sonhos. A nova geração dos Benedettini não conhecia a fome que havia marcado a vida de seus pais. Anos se passaram, e Giovanni envelheceu. Sentado na varanda de sua modesta casa, ele observava os campos ao redor, que se estendiam até onde a vista alcançava. O Brasil, tão distante de sua terra natal, agora era seu lar. Giovanni nunca esqueceu o Vêneto. Contava histórias para os netos sobre as montanhas, os campos e as tradições da sua terra. Mas ele também sabia que o futuro estava ali, na terra que ele e sua família haviam adotado. “Somos como as árvores”, dizia ele. “Nossas raízes estão no Vêneto, mas aqui, nesta terra, crescemos e damos frutos.”

E assim, a história dos Benedettini se entrelaçou com a história do Brasil, um legado de coragem, resiliência e esperança, que continuaria a viver nas gerações futuras. Os Benedettini nunca mais voltaram ao Vêneto. Mas, nas suas orações e nos seus corações, a Serenissima Republica de Veneza continuava viva, como um símbolo de tempos melhores, de uma dignidade que o mundo moderno tentara roubar, mas que eles mantiveram intacta através da fé, do trabalho e da unidade familiar. O Brasil lhes deu uma nova vida, mas o espírito do Vêneto, forjado em séculos de história, nunca os deixou. Sob o céu estrelado da nova terra, Giovanni Benedettini encontrou paz, sabendo que, apesar de todas as adversidades, ele e sua família haviam construído um novo futuro sem jamais esquecer o passado.

domingo, 18 de agosto de 2024

Sonhos em Terra Nova: A Jornada dos Imigrantes Italianos no Rio Grande do Sul



No final do século XIX, a Itália, então um reino recém unificado, estava marcada pela diminuição drástica de trabalho, pobreza e pelo desespero. A falta de empregos no campo trazia para as pequenas cidades levas de famílias em busca de uma vida nova que o país, por falta de recursos, infelizmente, não podia oferecer. Trento, Vêneto e Lombardia eram regiões particularmente afetadas pela crise econômica que assolava o país. As terras eram secas em algumas zonas e sofriam com inundações em outras, sendo a fome um inimigo constante, especialmente nas zonas montanhosas, acostumadas  a séculos com essas dificuldades. Entre as aldeias e vilarejos, a esperança de melhora era uma mercadoria escassa. No entanto, o rumor de uma terra prometida, do outro lado do oceano, começava a se espalhar como um bálsamo para aqueles que lutavam pela sobrevivência.

Giovanni e Maria, pequenos trabalhadores rurais, moradores em uma vila de Trento, viviam com seus três filhos – Carlo, Lucia e Antonio – em uma velha e precária casa, que a família ja não tinha recursos para os devidos reparos, mas, por outro lado, cheia de sonhos. Giovanni, como agricultor lutava contra a terra ingrata, a inclemência do clima e os preços baixos dos grãos que colhia e dos poucos produtos que conseguia obter, sentia agora que sua família estava à beira do desespero. Ao ouvir histórias sobre a vastidão das terras brasileiras e as oportunidades que se abriam no Novo Mundo, decidiu que era hora de buscar um futuro melhor. Com apenas alguns poucos bens e muito mais esperança, a família se preparou para deixar para trás o que conheciam e partir rumo ao desconhecido.

Enquanto isso, em Treviso, Elisa e seu pai, Giuseppe, estavam imersos em um sentimento de perda e esperança. Giuseppe, um viúvo marcado pela dor da perda recente de sua esposa, viu na emigração uma chance de dar a sua filha uma vida que ele não podia mais proporcionar na Itália. Eles embarcaram em um navio, cheios de expectativas e com o coração pesado pela despedida, rumo ao Brasil.

Na Lombardia, a situação era igualmente desesperadora. Luigi, um jovem artesão, viu a emigração como a única saída para mudar sua sorte e garantir um futuro melhor para seus irmãos mais novos. O navio que os transportava estava cheio de pessoas como ele – homens e mulheres que, carregavam consigo sonhos e esperanças.

A travessia para o Brasil não foi fácil. O oceano, imenso e imprevisível, desafiou a resistência dos imigrantes com tempestades e doenças. A comida era escassa e as condições de vida, precárias. No entanto, a fé e a determinação mantiveram todos em frente. A promessa de um novo começo estava sempre presente, um farol na escuridão das dificuldades.

Quando os navios finalmente chegaram ao Brasil, a visão que se apresentava era muito diferente daquilo que haviam imaginado. Os portos estavam abarrotados de pessoas, a vegetação era densa e o calor, abafante. Os imigrantes foram distribuídos em várias regiões, mas foi no Rio Grande do Sul que encontraram a maior concentração de novas colônias.

As colônias de Caxias do Sul, Dona Isabel e Conde d'Eu foram fundadas com o propósito de oferecer terras e condições para que os imigrantes pudessem prosperar. No entanto, a adaptação à nova vida não foi fácil. As terras eram vastas e selvagens, e a infraestrutura era quase inexistente. A comunicação com o mundo exterior era limitada e os primeiros anos foram marcados por um intenso esforço para transformar a mata virgem em campos férteis.

Giovanni e Maria enfrentaram o desafio com coragem. A família começou a desbravar a terra, com Giovanni trabalhando a terra e Maria cuidando da casa e dos filhos, além de ajudar o marido no pesado trabalho da roça. As dificuldades eram muitas, mas o trabalho árduo e a esperança de uma colheita promissora eram a motivação diária. O clima quente e as doenças desconhecidas representavam desafios constantes, mas a perseverança da família era inabalável.

Elisa e Giuseppe por sua vez, lutaram para se estabelecer em sua nova casa. Encontraram apoio em outros imigrantes e, juntos lentamente, foram formando uma pequena comunidade. Giuseppe usou suas habilidades agrícolas para cultivar a terra, enquanto Elisa cuidava da casa e procurava fazer amizade com os vizinhos para se adaptar à vida nas colônias.

Luigi e seus amigos enfrentaram desafios semelhantes. A terra era rica, mas o trabalho era intenso. Sua aptidão na construção foi útil, encontrando nesse setor o se ganha pão. As condições em que viviam eram duras e a grande distância entre as famílias aumentava o sentimento de isolamento. No entanto, a camaradagem entre os imigrantes ajudava a superar as dificuldades. Além do trabalho na construção, se dedicava com afinco na pequena roça e a primeira colheita foi uma grande conquista. O sentimento de realização começou a brotar, mesmo diante das adversidades.

Com o tempo, os imigrantes italianos começaram a ver os frutos de seu trabalho. As colônias prosperaram, e as terras, uma vez inóspitas, transformaram-se em áreas férteis e produtivas. As dificuldades iniciais foram superadas pela determinação e pelo espírito de comunidade. Os laços entre os imigrantes se fortaleceram, e a vida nas colônias tornou-se cada vez mais gratificante.

O legado dos imigrantes italianos no Rio Grande do Sul é uma história de resiliência e superação. Eles chegaram em busca de uma vida melhor e, através de trabalho árduo e determinação, conseguiram transformar suas vidas e a terra em que estabeleceram suas raízes. Hoje, suas contribuições são celebradas e a influência italiana é uma parte fundamental da cultura e da história da região. A saga dos imigrantes italianos é um testemunho poderoso do espírito humano e da capacidade de transformar desafios em conquistas duradouras.


quinta-feira, 8 de agosto de 2024

O Fluxo Migratório Italiano: Uma Jornada Transoceânica


"Deixo minha casa, deixo o país e vou para a América para capinar. Parto em busca da fortuna e há um mês não vejo mais terra: só céu e mar.  Deixo minha casa, a bela Itália, para ir tão longe, em terra estrangeira. E sob um outro céu e uma outra estrela levo os filhos e a mulher para lá começar com melancolia pensando no campo onde nasci, naquela velha e santa mãe e em todas as coisas queridas do passado...”  Assim escreveu um emigrante italiano durante a viagem, ainda no navio.

De acordo com o pesquisador e escritor Delisio Villa, autor do conhecido livro Storia dimenticata: "O ano de 1860 é considerado o ano zero da emigração italiana". 
Nesse ano, começa a longa jornada dos italianos em busca de novos espaços, na Europa e na América. Uma fotografia precisa da situação da Itália nos últimos anos do século XIX, região por região, das condições de vida da maior parte dos italianos, podemos conhecer no chamado Relatório Jacini, uma abrangente pesquisa nacional realizada pelo parlamento italiano, da situação agrária do país publicada entre 1881 e 1890. Este documento oficial diz que: 
"Nos vales dos Alpes e dos Apeninos, e também nas planícies, especialmente no sul da Itália, e até mesmo em algumas províncias entre as mais bem cultivadas do norte da Itália, surgem barracos onde em um único cômodo enfumaçado e sem ar e luz vivem juntos homens, cabras, porcos e galinhas. E esses barracos podem ser contados talvez em centenas de milhares¨.
Uma análise das causas subjacentes à vasta migração transoceânica ocorrida entre 1880 e 1914 revela uma gama diversificada de fatores. Simplificando, o movimento migratório foi impulsionado por uma combinação de mudanças demográficas, como a redução da taxa de mortalidade e a estabilização da taxa de natalidade após 1870, e fatores econômicos, destacando-se a crise agrícola dos anos 1880, que resultou em escassez de alimentos e uma crise econômica substancial.
No entanto, a principal motivação para a migração maciça foi a incapacidade dos camponeses em adquirir capital líquido, o que levou grandes contingentes a empreender a perigosa travessia oceânica em busca de oportunidades. Esses eventos, combinados com a imposição de tributos sobre a farinha, cujo não pagamento poderia levar ao confisco das propriedades, resultaram em um êxodo em massa das áreas rurais.
Para contextualizar, entre os anos de 1875 e 1881, aproximadamente 61.831 pequenas propriedades no campo foram confiscadas, e entre 1884 e 1901 outras 215.759 pequenas propriedades rurais enfrentaram o mesmo destino desafortunado.
Este retrato sombrio por si só evidencia que os fatores que impulsionaram a migração superavam em peso os fatores de atração. O movimento migratório não encontrou barreiras significativas por parte das elites da época, as quais, pelo contrário, acolheram com alívio uma emigração que servia como uma válvula de escape para manter a estabilidade social. 
Naturalmente, houve oposição à emigração, sobretudo por parte dos proprietários de terras, preocupados com a diminuição visível da mão de obra devido ao êxodo, o que poderia levar a aumentos salariais e a condições de trabalho mais favoráveis aos camponeses. No entanto, a favor da emigração, houve um movimento crescente liderado pelos armadores genoveses, proprietários das grandes companhias italianas de navegação da época, agindo em comum acordo com países que procuravam desesperadamente mão de obra em toda a Europa.
Este breve relato do relatório Jacini ilustra a dureza e a dificuldade da vida na Itália naquele período e a mentalidade que os italianos deviam ter diante dessa situação. A difícil situação interna e a percepção de que a Itália oferecia poucas perspectivas levaram milhões de italianos a deixar sua terra natal em busca de novos horizontes. A situação interna estava muito difícil, com falta de trabalho de norte a sul do país, com a fome rondando os lares mesmo na área rural. Assim começou um processo que ao longo de um século levaria milhões de italianos a se estabelecerem em diversas partes do mundo.
Quanto às regiões de origem dos emigrantes e aos destinos para os quais os italianos se dirigiram, os padrões de migração variaram ao longo do tempo e geograficamente. As regiões do Norte foram as primeiras a sentir os efeitos das intempéries, da importação de cereais de outros países, dos diversos impostos que gravavam impiedosamente os mais desprotegidos, da industrialização que dava os primeiros passos, enquanto áreas como o Nordeste e o Sul testemunharam fluxos migratórios mais substanciais. O atraso da emigração do sul em relação ao norte pode ser atribuído a vários fatores, incluindo a gradual participação na migração e a falta de recursos financeiros para enfrentar as viagens.
Em relação aos destinos, entre 1876 e 1885, a Europa Central, principalmente França, Áustria, Alemanha foram as principais metas escolhidas, representando cerca de 64% dos emigrantes. Posteriormente, com o persistir das condições adversas na Itália, os destinos transoceânicos, como Brasil, Argentina e Estados Unidos, ganharam mais peso. Após a Primeira Guerra Mundial, a emigração no continente europeu voltou a predominar, devido em parte às restrições impostas por alguns países receptores, como os Estados Unidos.
No Brasil, especialmente, houve uma grande afluência de italianos a partir do final do século XIX até meados do século XX. Estes imigrantes buscavam aqui melhores condições de vida do que as encontradas em suas terras de origem. Muitos desembarcaram nos portos de Santos, Rio de Janeiro e Paranaguá, cada um trazendo consigo uma história singular, mas todos unidos pelo desejo comum de encontrar um lugar onde pudessem viver dignamente e oferecer um futuro melhor para suas famílias.
A imigração italiana no Brasil em si teve início em 1874 tendo como destino o estado do Espírito Santo que recebeu a primeira leva de italianos e ao longo de um século trouxe cerca de um milhão e meio de italianos para os portos brasileiros.