Emigranti italiani: ai piedi del gruppo la scritta «Fatta il 1891 in Brasile» (Gilardi)
Sui monti del Rio Grande do Sul non c’era che foresta vergine: i contadini veneti, tra enormi sacrifici, in pochi decenni la trasformarono in ordinati vigneti con fiorenti città commerciali Rimodellando la stessa struttura sociale brasiliana, che fino ad allora conosceva solo i grandi latifondi lavorati da schiavi Il Brasile l’hanno costruito gli immigrati. Prima i portoghesi, poi gli schiavi africani e quindi, dopo il distacco dal Portogallo, nel 1822, gli europei. Soprattutto gli italiani.
Quando il governo decise di riconoscere l’enorme debito di riconoscenza che ci era dovuto, scelse la città di Caxias do Sul. Qui il presidente Getulio Vargas inaugurò nel 1954 il grandioso Monumento nazionale all’immigrato sul quale campeggia la scritta « A nação brasileira ao imigrante ».
Perché proprio Caxias? Perché in questa città che ora supera il mezzo milione di abitanti, nella quale tutto, a partire dai cognomi, tradisce l’origine peninsulare, incuneata nella zona di montagna del Rio Grande do Sul, nel lembo meridionale del Brasile, a 800 metri di altitudine, è avvenuto uno più riusciti e straordinari trapianti di popolazione dell’intera storia migratoria. Una vicenda epica, che merita di essere meglio conosciuta.
Oggi Caxias è uno dei centri più ricchi e industrializzati di tutta l’America latina, con colossi produttivi come la fabbrica di autobus Marcopolo, quella di camion e vagoni ferroviari Randon, aziende vinicole e agroalimentari poderose. Ma ancora a fine ’800 non era che un remoto villaggio di contadini che lavoravano come matti per disboscare la foresta e mettere insieme due pasti al giorno. Attorno c’era il vuoto.
Tutto il Brasile non aveva che dieci milioni di abitanti (1872) e il Rio Grande do Sul (esteso poco meno dell’Italia) meno di mezzo milione, dislocati sulla costa atlantica. La zona di montagna, la Serra Geral coperta da incontaminate foreste di araucaria dove ora sorge Caxias, era terra di nessuno, abitata solo da animali e da residue tribù indigene. Il governo decise così di iniziare una massiccia politica immigratoria dall’Europa per riempire lo spazio e metterlo a coltura, ristabilire l’equilibrio fra la componente bianca e quella nera, che rischiava di diventare maggioritaria, affiancare la piccola proprietà contadina di lavoratori liberi alle immense proprietà terriere di origine portoghese, fondate sul lavoro schiavo.
Il territorio più delicato era proprio il Rio Grande, il più fertile, percorso da fremiti separatisti mai sopiti anche dopo la fine della Guerra dei Farrapos (1835-1845), quella in cui si era infilato Garibaldi dopo la fuga dal Piemonte. Qui, nella serra, fu delimitata una zona coloniale vasta più o meno come la Val Padana, e vi fu indirizzata, negli ultimi decenni dell’800, una parte della folla di emigranti italiani che dopo l’Unità fuggivano dalla miseria delle campagne per cercare terra e lavoro nel nuovo mondo. Dopo un viaggio sfibrante – via oceano fino a Santos e da Santos a Porto Alegre, quindi via fiume e poi a piedi fino alla zona coloniale – approdarono in queste montagne circa settantamila famiglie, per la maggior parte provenienti dal Veneto. Ricevettero lotti di terreno mal delimitati nei boschi, gli attrezzi indispensabili per disboscare e seminare e fu detto loro di arrangiarsi.
I primi anni furono drammatici. «È doloroso, è orribile il seguire gl’infelici emigranti nel loro Calvario», scrivono gli ispettori italiani che dal consolato di Porto Alegre cercavano di seguirli e inviavano relazioni al nostro ministero degli Esteri proponendo misure a loro favore, sempre disattese. Qui, invocano i consoli, occorrono maestri elementari, medici, una linea diretta di navigazione fra Genova e Porto Alegre. Qui sta nascendo una nuova Italia che contribuisce con le rimesse alla ricchezza nazionale (incredibilmente, questa gente risparmiava e mandava denaro in Italia) e chiede soccorso. Invece non fu fatto nulla. I coloni fecero tutto da sé. Molti «vivono in uno stato semiselvaggio, non osano mostrarsi quando passa un viaggiatore ».
A salvarli fu il clima sano di montagna, ventilato, con stagioni ben differenziate. E poi la coesione famigliare, la solidarietà reciproca, il senso religioso forte che avevano portato dall’Italia. L’isolamento mantenne viva la lingua, la parlata dialettale veneta (nessuno parlava italiano), che è sopravvissuta e oggi è riconosciuta per legge come patrimonio culturale del Rio Grande, il talian.
Più forte della disperazione fu tuttavia la libertà da ogni servitù che offriva loro il Brasile, la prospettiva della proprietà della terra che era stata negata loro in Italia. Già alla vigilia della Grande Guerra, una quarantina d’anni dopo i primi arrivi, la zona era irriconoscibile. Dove c’era prima la foresta, ora c’erano paesi, strade, coltivazioni, un’attiva rete di scambio. La vite, prima sconosciuta in Brasile, era entrata definitivamente nel ciclo produttivo locale e Caxias svettava fra le colonie come il centro più prospero e vivace.
«Predominano le case di legno – scrive il console italiano Giovanni Battista Beverini nel 1912 – tutto, in esse, vi dà l’idea del lavoro febbrile, materiale; nulla, neppure il letto, offre l’idea del riposo». I lotti di terreno erano stati riscattati e avevano fatto nascere una nuova classe di piccoli proprietari. A prezzo di inenarrabili sacrifici era avvenuto esattamente quello su cui aveva puntato il governo creando la colonia italiana: era nato un inedito modello sociale di lavoratori autonomi, di piccoli imprenditori, sconosciuto nel vecchio Brasile portoghese a economia servile.
Una cesura si ebbe quando divenne presidente Getulio Vargas. Per unificare i tanti Brasili che convivano nel suo immenso Paese progettò l’“Estado novo” con una forte impronta autoritaria e misure che limitavano le manifestazioni di autonomia. Quando poi scese in guerra contro l’Asse, nel 1942, l’uso in pubblico dell’italiano (e del tedesco) divenne un reato. Per molti vecchi immigrati, che non avevano mai imparato il portoghese e parlavano solo il dialetto veneto, queste misure apparvero quasi un tradimento. È per riparare quel torto che lo stesso Vargas, tornato al potere dopo la guerra, volle andare a Caxias a inaugurare il monumento all’immigrato.
Delle sofferenze d’un tempo rimane ormai solo il ricordo, anche se l’espressione “colonia” continua ad essere usata per indicare il vecchio territorio italiano. A tenere viva la memoria delle origini oggi c’è la “Festa da uva”, un evento di rilievo nazionale che richiama centinaia di migliaia di persone a Caxias, una delle città più prospere e produttive di tutto il Sudamerica.
I discendenti di quei contadini analfabeti sono diventati la classe dirigente del Rio Grande do Sul, al quale hanno dato, nel dopoguerra, sette governatori e una nuova generazione di storici, sempre più attivi nelle università, a partire proprio da quella di Caxias, fondata nel 1967. I loro studi, dopo quelli pionieristici di Rovilio Costa (1937-2009), tendono a dimostrare come l’emigrazione europea (italiana in primis) e la colonizzazione non rappresentino una storia minore, una sorta di versione americana di quella che noi chiamiamo storia locale, ma siano, al contrario, parte integrante e decisiva del processo di costruzione della nazione e dello Stato.
La tesi che se ne può ricavare è tanto suggestiva quanto innovativa per la cultura nazionale: il Brasile moderno non è un paese monocentrico (Rio de Janeiro, San Paolo, la Bahia) ma policentrico, tuttora in divenire, alla cui costruzione hanno contribuito e contribuiscono tanto le componenti tradizionali, di origine coloniale, quanto quelle derivate dall’emigrazione.
Come dire: la Festa dell’uva è costitutiva dell’identità del Brasile non meno del Samba di Rio o della Capoeira o della letteratura del Sertão. E così gli italiani, dopo aver rifuso la società e trasformato l’economia del Paese che li ha accolti, ne stanno ora modificando la percezione culturale.