segunda-feira, 12 de março de 2018

A Imigração da Mulher na Zona Colonial Italiana do Rio Grande do Sul


A imigração no Rio Grande do Sul se caracterizou por ser prevalentemente realizada por inteiras famílias rurais, sobretudo formada por jovens, diferente de outros locais onde a grande predominância era masculina. Dados sobre a imigração italiana no Estado relatam que na colônia de Caxias a relação entre o imigrante do sexo masculino e feminino era da ordem de 1057 homens para 816 mulheres. Nas colônias gaúchas, a mulher se casava muito cedo e vinham a ter 10, 12 ou mais filhos, situação que se manteve inalterada aqui no Rio Grande do Sul em comparação com as terras de origem no Vêneto.

A presença feminina atenuou o impacto do imigrante com a nova terra, facilitando a sua integração e de toda a família, criando condições para o desenvolvimento econômico das mesmas. Ela foi fator decisivo para fixação do homem à terra e com o seu trabalho muito concorreu para o progresso familiar.

Mantida longe da escola, para ser aproveitada em todos os afazeres domésticos, a mulher vêneta imigrante, era na sua grande maioria analfabeta, submissa e privada do direito de hereditariedade, excluída da escola e do uso do dinheiro.

Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS

A Herança da terra na zona colonial do Rio Grande do Sul



A mulher imigrante vêneta, ou italiana, com o seu trabalho árduo, participava em pé de igualdade com o homem, na manutenção da propriedade e na educação dos numerosos filhos. Ela foi a responsável direta pelo sucesso da imigração italiana em terras gaúchas e pela conservação da cultura originária, que ao passar para os filhos, pode se conservar até os nossos dias.

Apesar de toda essa importância, à mulher vêneta imigrante, não era reconhecido nenhum direito à terra. A terra não fazia parte da herança da mulher imigrante na zona colonial italiana do Rio Grande do Sul. Se tivesse irmãos, por herança ela nunca se tornava proprietária de um pedaço de terra, o que podia acontecer somente quando ficava viúva ou, se solteira, com a morte dos pais, fosse filha única ou não ter irmãos.

Quando acontecia o falecimento de um dos pais, a propriedade rural, deixada como herança, era dividida somente entre os filhos homens.

Também a divisão dos bens deixados como herança obedecia a uma divisão desigual que quase nunca favorecia a mulher. Quando o filho casava recebia um pedaço de terra para trabalhar e construir a sua casa e a filha, quando muito, recebia alguma coisa para o enxoval. Parte deste foi confeccionado por ela mesmo, em anos de trabalho de noite, no tempo livre e pago desde moça, com pequenos trabalhos manuais ou recursos de pequenas vendas no mercado.

Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS

O Namoro e o Casamento na Zona Colonial Italiana do Rio Grande do Sul



O casamento era um dos momentos coletivos mais importante na zona colonial do Rio Grande do Sul. Através dele se mantiveram os valores da terra de origem e se conservaram os usos, os costumes e as tradições familiares trazidas do Vêneto pelo pioneiros. Foi ele o fator principal que permitiu aos imigrantes, principalmente os homens, de se fixarem à terra e criarem aqui uma nova sociedade estável, sempre tendo por exemplo aquela da qual vieram. Casar e constituir uma família era o desejo comum encontrato em toda a zona rural vêneta. O namoro, período ritual de preparativos graduais para o recíproco conhecimento dos jovens e também das duas famílias envolvidas, era o primeiro passo necessário que, depois de um período variável, chegava ao noivado, fase que antecedia o casamento, que devia então durar por toda a vida. 
O filò nas estrebarias, os trabalhos em comum na colheita das plantações, importantes costumes coletivos trazidos das terras de origem, e depois mais tarde nas missas, foram as formas encontradas para continuar, aqui no Rio Grande do Sul, propiciando momentos de encontro entre os jovens de diversas famílias vizinhas e início dos namoros.
Os jovens eram considerados noivos somente depois da aprovação dos pais e o rapaz podia então frequentar a casa da noiva, com visitas aos domingos a tarde.


Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS


San Marco il Patrono di Venezia e il suo Simbolo





Era l'828 d.C. quando la Repubblica di Venezia elevò San Marco come Patrono della Città, ecco che il leone alato diventò simbolo politico della Serenissima. E oggi è il logo indiscusso di Venezia.
Il Leone Marciano ha in Piazza San Marco la sua apoteosi, se ne contano ben quindici così collocati:
• 1 sulla Torre dell’Orologio
• 1 sull’Arcone centrale della Basilica
• 2 sul Campanile
• 1 sulla Porta della Carta assieme al Doge Foscari
• 1 nel Poggiolo di Palazzo Ducale con il Doge Gritti
• 1 nella Colonna posta sul Molo (verso Palazzo Ducale)
• 2 nella Piazzetta chiamata perciò detta dei “Leoncini”
• 4 sul sarcofago di Daniele Manin
• 2 sul cancello bronzeo della Loggetta del Campanile

IL SANTO A VENEZIA

Il 25 aprile è l'unica data rimasta per festeggiare questo Santo che è tutt’uno con la città di Venezia mentre anticamente nella Serenissima era festeggiato solennemente il 31 gennaio (dies translationis corporis) giorno dell'arrivo in città delle sante spoglie dopo l'avventuroso trafugamento da parte dei veneziani in Alessandria d'Egitto nell'anno 828 d.C.:
- Il 25 aprile (giorno del martirio e rinascita ultraterrena)
- Il 25 giugno (giorno del ritrovamento del Santo corpo)
Ritrovamento perché quando le reliquie arrivarono a Venezia fu subito eretta una chiesa in suo onore che nei secoli successivi fu più volte rifatta, sia nel 968 che nel 1094. Durante il susseguirsi dei lavori nella Basilica, si perse l'ubicazione delle reliquie e si racconta che al terzo rifacimento, il Doge Falier abbia indetto un lungo digiuno nella speranza, pregando, di ritrovarle. La leggenda vuole che durante queste preghiere si sia sgretolato un pilastro dal quale apparve un braccio di San Marco indicante l’ubicazione della sua sepoltura. Da quel momento le spoglie di San Marco furono collocate sotto l'altar maggiore, dove si trovano tuttora.


Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS


Le Leggende de El Bocolo - Festa del Patrono di Venezia


El bocolo

Il 25 aprile Il 25 aprile a Venezia si festeggia il patrono della città, San Marco Evangelista. Storicamente, ai tempi della Serenissima Repubblica, si organizzava una processione a cui partecipavano sia autorità civile, sia religiose che partiva proprio da Piazza San Marco.

Tantissime sono le leggende legate a questo Santo venerato dai veneziani e proprio da una di queste l'usanza di regalare in questo giorno un bocciolo di rosa rossa "bocolo" alla persona amata, tradizione che nessun maschio veneziano infrange.

1) Secondo una di queste, durante la fortissima mareggiata che, come narra Marin Sanudo, colpì Venezia nel febbraio del 1340, un barcaiolo riparatosi presso il ponte della Paglia fu invitato a riprendere il mare da un cavaliere.
Durante il tragitto verso la bocca di porto, il barcaiolo fece sosta a S. Giorgio Maggiore e poi a S. Nicolò del Lido. Raggiunto il mare aperto, i demoni che spingevano l'acqua verso Venezia furono affrontati e battuti dai tre Santi cavalieri: Marco, Giorgio e Nicolò. Sconfitti i demoni, San Marco affidò al barcaiolo un anello, da consegnare all'allora doge Bartolomeo Gradenigo perchè fosse conservato nel Tesoro di San Marco.

2) Un’altra riguarda la storia del contrastato amore tra la nobildonna Maria Partecipazio ed il trovatore Tancredi. Nell'intento di superare gli ostacoli dati dalla diversità di classe sociale, Tancredi parte per la guerra cercando di ottenere una fama militare che lo renda degno di tanto altolocata sposa. Purtroppo però, dopo essersi valorosamente distinto agli ordini di Carlo Magno nella guerra contro i Mori di Spagna, cade ferito a morte sopra un roseto che si tinge di rosso con il suo sangue. Tancredi morente affida a Orlando il paladino, un bocciolo di quel roseto perché lo consegni alla sua (di Tancredi, non di Orlando) amata.
Orlando fedele alla promessa giunge a Venezia il giorno prima di S. Marco e consegna alla nobildonna il bocciolo quale estremo messaggio d'amore del perito spasimante. La mattina seguente Maria Partecipazio è trovata morta con il bocciolo rosso posato sul cuore e da allora, gli amanti veneziani usano quel fiore come rappresentativo pegno d'amore.

3) Nella seconda metà dell'Ottocento (864-881 N.d.r.) Orso I° Partecipazio era Doge di Venezia. Sua figlia amava, riamata, un giovane bello e coraggioso ma di umile famiglia, ragione per la quale suo padre non ne voleva sentir parlare. La ragazza allora consigliò all'innamorato di andare a combattere contro i Turchi(1), in modo da riscattare con la gloria delle imprese le sue umili origini. In breve i racconti sul coraggio e sulle eroiche gesta del giovane giunsero ovunque, finché un messaggero portò a Venezia un fiore ed una triste notizia: il giovane era caduto colpito a morte in combattimento. Prima di morire tuttavia questi trovò la forza cogliere un bocciolo da un cespuglio lì vicino e chiamare un compagno d'armi facendogli promettere di consegnarlo all'amata in segno di un amore e di una fedeltà che nemmeno la morte avrebbe potuto spezzare. Nel raccoglierlo il bocciolo si macchiò del sangue dello sfortunato giovane, tanto da renderlo rosso... come le rose che ancor oggi si donano.

4) Secondo altra leggenda la tradizione del bocolo discende invece dal roseto che nasceva accanto alla tomba dell'Evangelista. Il roseto sarebbe stato donato a un marinaio della Giudecca di nome Basilio quale premio per la sua grande collaborazione nella trafugazione delle spoglie del Santo. Piantato nel giardino della sua casa, il roseto alla morte di Basilio divenne il confine della proprietà suddivisa tra i due figli. Avvenne in seguito una rottura dell'armonia tra i due rami della famiglia (fatto che sempre secondo le narrazioni fosse causa anche di un omicidio), e la pianta smise di fiorire. Un 25 aprile di molti anni dopo nacque amore a prima vista tra una ragazza discendente da uno dei due rami e un giovane dell'altro ramo familiare. I due giovani s’innamorarono guardandosi attraverso il roseto che separava i due orti. Il roseto accompagnò lo sbocciare dell'amore tra parti nemiche coprendosi di boccoli rossi, e il giovane cogliendone uno lo donò alla ragazza. In ricordo di quest’amore a lieto fine, che avrebbe restituito la pace tra le due famiglie, i veneziani offrono ancor oggi il boccolo rosso alla propria amata.

Particolare venexiano, il bocolo è anche dono che in quel giorno i figli usano fare alle mamme.

Fonte: Mattia Von Der Schulenburg


Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS

Il Leone di San Marco



Leone di San Marco

La simbologia del leone di san Marco deriva da un'antichissima tradizione delle Venezie, secondo la quale un angelo in forma di leone alato, avrebbe rivolto al Santo, naufrago nelle lagune, la frase: «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum.» (Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo.) preannunciandogli che in quelle terre avrebbe trovato un giorno riposo e venerazione il suo corpo. Il libro, spesso erroneamente associato al Vangelo, ripropone proprio le parole di benvenuto del leone e, nella maggior parte delle rappresentazioni veneziane, si presenta aperto recando solitamente la scritta latina «PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS»
Bisogna ricordare anche che lo stesso san Marco, rappresentato in forma di leone, è tipico dell'iconografia cristiana derivante dalle visioni profetiche contenute nel versetto dell'Apocalisse di san Giovanni 4, 7. Il leone è infatti uno dei quattro esseri viventi descritti nel libro come posto attorno al trono dell'Onnipotente ed intenti a cantarne le lodi, poi scelti come simboli dei quattro evangelisti. In precedenza questi "esseri" erano stati descritti dal profeta Ezechiele nel suo libro contenuto nella Bibbia ebraica. Il leone è associato a Marco in funzione delle parole con le quali inizia il suo Vangelo in riferimento a san Giovanni Battista:
« Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.
Come è scritto nel profeta Isaia: "ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada.
Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri". »
(Vangelo secondo Marco 1,1-3)
Il Battista vestiva nell'immaginario cristiano una pelle di leone e la frase evangelica della voce che grida nel deserto richiamava l'idea di un ruggito nel deserto.
Il leone simboleggia anche la forza della parola dell'Evangelista, le ali l'elevazione spirituale, mentre l'aureola è il tradizionale simbolo cristiano della santità.
Tuttavia il simbolo leonino esprimeva anche il significato araldico di maestà e potenza (tratto quest'ultimo sottolineato soprattutto dalla coda felina alzata), mentre il libro ben esprimeva i concetti di sapienza e di pace e l'aureola conferiva un'immagine di pietà religiosa. La spada, oltre al significato di forza, è invece anche simbolo di giustizia e difatti è ricorrente nelle rappresentazioni, antropomorfe e no, della Giustizia.
Erano dunque simbolicamente presenti tutti i caratteri con cui Venezia ama pensare e descrivere sé stessa: maestà, potenza, saggezza, giustizia, pace, forza militare e pietà religiosa.
Numerose le interpretazioni simboliche possibili riguardo alla combinazione tra spada e libro:
il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato (numerose le raffigurazioni dei dogi inginocchiati davanti a tale rappresentazione);
il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata e quindi delle pubbliche magistrature;
il libro aperto (e la spada a terra non visibile) è ritenuto popolarmente simbolo della condizione di pace per la Serenissima,in realtà un falso storico perchè non è suffragato da alcuna fonte storica
il libro chiuso e la spada impugnata è invece popolarmente, ritenuto simbolo della condizione di guerra,ma è un falso storico dell 1800 ,il libro aperto e la spada impugnata sarebbe infine simbolo della pubblica giustizia.
Tuttavia tali interpretazioni non sono universalmente accettate in quanto la Serenissima non codificò mai i propri simboli rappresentati in modo assai vario. Rare, ma presenti, sono anche raffigurazioni del leone privo sia del libro, che della spada, che talvolta dell'aureola (soprattutto nella rappresentazione statuaria).
Non rare le raffigurazioni in cui il leone poggia le zampe anteriori su una terra in cui spesso compare anche una città turrita e quelle posteriori sull'acqua: tale particolare rappresentazione intendeva indicare il saldo potere di Venezia sulla terra e sul mare.
doc- stampa vettor carpaccio -leone andante 1516 -palazzo ducale 
doc- il leone di san marco -storia p.c


Fonte: Mattias Von Der Schulenburg


Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS

Nozioni storiche sul Capodanno Veneto


Palazzo Ducale

Il calendario Veneto affonda le radici nella notte dei tempi fra i popoli indoeuropei. La zona originaria dei Veneti era il nord dell’Europa centrale (zona Lusaziana), dove gli scavi archeologici degli ultimi 30 anni stanno confermando quello che diverse fonti antiche riportavano. La civiltà veneta antica (venetica) sapeva coltivare, produrre il vino, allevare gli animali, scrivere, lavorare i metalli e le ceramiche, fare arte nelle case e nei monili, già attorno il 3000 Avanti Cristo. Questa civiltà creatrice aveva come divinità principale la Dea Retia che era appunto la divinità della vita, della salute e generatrice di essa. Non stupisce dunque che proprio quando la terra, ancora nel freddo, inizia l’attività generatrice e si prepara alla primavera, ossia nel mese di marzo, proprio allora i veneti festeggiassero la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo.
Attorno al 2500 A.C. iniziarono diverse migrazioni dei veneti, secondo alcuni per cause climatiche ed ambientali, secondo altri per una certa naturale espansione di una civiltà che sapeva dare molto alle altre senza bisogno di far guerra. Essi si espansero in tutte le direzioni, cosicché sono di origine indoeuropea anche le popolazioni dell’est come dell ovest fino all’odierno Iran. Verso sud essi si stanziarono anche nell’Anatolia, e successivamente, intorno al 1200 A.C., a seguito della guerra di Troia da cui Antenore fu salvato, si stanziarono nell’alto Adriatico, fondando Padova e altre Città. Forse perché i romani ebbero come capostipite Enea, un discendente di Antenore, anche essi usavano il calendario indoeuropeo con inizio a marzo, ma tuttavia esso non rispondeva bene alle loro necessità dato che era di originario di luoghi soggetti all’inverno artico. Alcuni sostengono che per loro l’anno iniziasse a marzo e fosse intitolato a Marte, ma secondo la mitologia romana arcaica, quella più antica, Marte era appunto il dio della natura, della fertilità, della pioggia e dei tuoni e fu solo successivamente, in età classica , che divenne il dio della Guerra.
Comunque fosse, ancora oggi il calendario risente dell’impronta indoeuropea, per cui a partire da Marzo, il mese della rinascita, si contano i dieci mesi, di cui il settimo (settembre), l’ottavo (ottobre), il nono (novembre) e il decimo (dicembre) conservano ancora il ricordo. Il quinto (Luglio ) e il sesto (Agosto ) furono poi intotalati a Julius e ad Cesare Augustus. Gennaio e Febbraio furono aggiunti con varie riforme per dare conto al ciclo delle stagioni che più a sud di dove nacque è diverso nei tempi della luce. Così, anche nella millenaria Serenissima Repubblica l’anno cominciava il 1 Marzo e Gennaio e Febbraio erano gli ultimi mesi dell’anno.

Fonte: Silvana Dal Cero


Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS