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terça-feira, 9 de abril de 2024

Fuga tra le Dolomiti: L'Epica Odissea di Matteo - Capitolo I


 

Fuga tra le Dolomiti: L'Epica Odissea di Matteo

La vita è una sola e dobbiamo cercare di viverla appieno


Capitolo 1


Il tramonto si avvicinava, annunciato dal pomeriggio che si spegneva lentamente. La pioggia persistente, implacabile nel suo freddo, penetrava ogni fibra dell'abbigliamento pesante che indossava. Il mantello improvvisato, recuperato dagli oscuri recessi della prigione, a malapena riusciva a contenere l'umidità inclemente che si abbattava. I corridoi del carcere, una volta testimoni silenziosi di destini sigillati, ora fornivano il mantello che lo avrebbe protetto dagli elementi ostili che complottavano contro la sua libertà. Gli abeti della fitta foresta a sud di Mittersill, erigendosi imponenti, si offrivano come silenziosi guardiani di fronte alla sfida che si delineava. La notte, veloce nel suo arrivo, disegnava contorni oscuri tra i tronchi impenetrabili. Il suo destino lo attendeva dall'altra parte del confine, al di là della vastità della foresta che si estendeva come un campo di battaglia tra l'uomo e la natura. Il freddo, unito alla pioggia implacabile, forgiava un ambiente impegnativo, dove la resistenza umana veniva messa alla prova. Il mese di dicembre, in quelle regioni montuose, imprimeva il suo crudele segno, intensificando le avversità che accompagnavano la fuga intrapresa. Ogni passo echeggiava non solo la ricerca della liberazione, ma anche la determinazione di sfidare gli elementi che si univano contro il viaggio verso la salvezza. Aveva già percorso i sentieri del tempo e del destino per più di una decina di ore, dall'alba di quella mattina implacabile, quando finalmente riuscì a superare gli imponenti muri che imprigionavano l'antica casa rurale, ora trasformata in un lugubre ergastolo. La confusione, come una nebbia densa, avvolgeva i suoi pensieri, un intricato groviglio di riflessioni veloci che si succedevano come stelle cadenti nel firmamento della sua mente. In mezzo a questa vertiginosa confusione, una sinfonia di caos risuonava, ancora riverberante negli angoli del suo essere. I formidabili scoppi di armi robuste, orchestrati dalle sentinelle nelle torrette elevate, echeggiavano come il rombo di cannoni nella sua coscienza. Il terrore, costante e palpitante, si intrecciava con l'udito acuto, fornendo lampi inquietanti della violenza che rimbombava tra le mura che lasciava alle spalle. Fari, luci di un'implacabile sorveglianza, si intrecciavano nell'oscurità, lanciando raggi intensi che si dispiegavano verso il fuggitivo. Il fervore luminoso dipingeva il quadro di un'inseguimento implacabile, dove l'oscurità serviva solo per evidenziare l'urgenza della fuga. Nel suo viaggio, ogni passo rappresentava una sfida alla pericolosa danza tra le ombre e la luce, nella ricerca incansabile di una libertà che si annunciava come un faro lontano, ma non negoziabile. Si concedeva brevi pause, brevi momenti di riposo tra il viaggio estenuante, quando la sete reclamava un sorso d'acqua che, con astuzia, raccoglieva dalle pozzanghere che punteggiavano il terreno. La stanchezza si insinuava, unita a una fame vorace che lo affliggeva. Le opportunità per un banchetto scarseggiavano da quella memorabile mattina, quando, nel cortile della prigione, si svelò la teatrale recita della fuga. Mentre i prigionieri venivano condotti al sole per i loro lavori quotidiani, uno scontro precedentemente architettato tra alcuni confinati, in un angolo strategico del vasto cortile, distoglieva l'attenzione dei guardiani. Nel cuore della fredda mattina, la confusione, come una cortina di fumo, forniva un travestimento per la fuga. In quel preciso istante calcolato, lontano dalle costruzioni e immerso nell'ombra del tumulto, lui scalava i muri imponenti. Utilizzando una corda ingegnosamente confezionata con stracci, abilmente nascosta sotto un secchio consumato dal lavoro dei prigionieri, forgiava il proprio esodo. Così, sul lato meno illuminato e lontano dal disturbato epicentro, la sua fuga si alzava, come una sinfonia clandestina, orchestrata dalla pazienza e dall'ingegno dei compagni di sventura. Il vecchio contenitore di legno, una volta destinato al lavaggio dei panni sbiaditi, custodiva l'artefatto cruciale, testimone silenzioso della pianificazione meticolosa che anticipava la libertà.


Passaggio del libro 'La Fuga dei Dolomiti' di Luiz Carlos B. Piazzetta
Continua



domingo, 17 de março de 2024

L'Odissea Indimenticabile di una Famiglia di Immigrati Veneti

 


Nel mese di gennaio del 1836, nelle aspre terre di Cesiomaggiore, circondate da alte montagne, coperte di neve in quel periodo dell'anno, Giacomo venne al mondo, un uomo destinato a tracciare un viaggio che plasmerebbe il destino di generazioni della sua famiglia. Maddalena, nata nel 1835 ad Arsiè, sarebbe stata la sua compagna in quest'odissea, una donna alta e forte, con determinazione e amore profondi come le radici degli alberi che avrebbero testimoniato la sua saga.
La coppia di piccoli agricoltori diede vita a una famiglia vivace, cominciando con Giuseppe, il primogenito, nato nel 1858 a Cesiomaggiore, il cui nome fu scelto in onore del nonno paterno, Giuseppe, il cui nome risuonava sulle colline come un tributo alla tradizione familiare. Poi, Maria Augusta venne al mondo nel 1860, seguita da Beatrice nel 1861 e Giovanni Battista nel 1863, tutti nati nella stessa città di Cesiomaggiore, nella provincia di Belluno. Una famiglia unita ma inquieta, il cui destino si intrecciava con l'immensa vastità del Brasile.
La storia della famiglia acquistò una nuova dimensione nel 1875, quando tutti, da Giacomo e Maddalena ai figli e nipoti, decisero di imbarcarsi in un'epica avventura verso terre sconosciute dall'altro lato del grande e temuto oceano. Il fratello minore di Giacomo, nato nel 1842, sposato con Fiordalise, ei suoi figli Angelo e Augusto, completavano il convoglio che si avventurava molto al di là degli orizzonti familiari. Il governo imperiale brasiliano, avendo urgentemente bisogno di manodopera, offriva il passaggio gratuito al nuovo luogo di lavoro alle famiglie che accettavano l'invito a trasferirsi nel grande paese. Era l'opportunità per abbandonare definitivamente quel nuovo paese in cui avevano sempre vissuto ma che ora, dopo l'unificazione, non riconoscevano più. Lì, la disoccupazione dilagava in tutte le regioni, la cattiva alimentazione e la fame colpivano le loro vittime, costringendo migliaia di persone a cercare un nuovo posto per garantire il loro sostentamento quotidiano, molto lontano da quelle circostanze avverse.
Il viaggio, dalla tranquilla Belluno fino al movimentato porto di Genova, fu un'esperienza indelebile. Il treno sconosciuto li portò attraverso il paesaggio italiano, prima che salissero a bordo della nave Adria, affrontando le intemperie dell'oceano. Due tempeste memorabili sfidarono la loro resilienza, ma la determinazione di lasciare un'Italia sconosciuta superò le avversità. Nonostante tutto erano felici perché sapevano che un mondo migliore li attendeva.
Lo sbarco al porto di Rio de Janeiro, nel gennaio del 1869, segnò l'inizio di una nuova fase. Rimasero due giorni ospitati presso l'Albergo degli Immigrati, aspettando con ansia la nave Rio Negro, che li avrebbe portati alla Colonia Dona Isabel, nel lontano Rio Grande do Sul.
A bordo del Rio Negro, tra centinaia di altri sognatori, la famiglia affrontò sei giorni di traversata prima di sbarcare al porto di Rio Grande. Grandi baracche comunitarie di legno, dove c'era poco spazio privato, li ospitarono per quasi quindici giorni, mentre aspettavano l'arrivo delle barche fluviali che li avrebbero portati alla città di Montenegro, il luogo più vicino alla tanto attesa Colonia Dona Isabel.
La traversata attraverso la grande Laguna dos Patos fino a Porto Alegre e la successiva risalita del fiume Caí per oltre sette ore, culminarono con l'arrivo al porto della piccola città di Montenegro, il luogo più vicino dove potevano arrivare in barca alla loro destinazione finale. Un breve riposo di un giorno precedette la preparazione per l'ultimo tratto fino alla colonia, che si faceva con carri trainati da muli che trasportavano i pochi averi del gruppo. Gli uomini, le donne in grado e i bambini più grandi camminavano accanto ai carri, mentre le donne incinte e i bambini più piccoli seguivano nei grandi carri. Il percorso era sassoso e difficile, per la maggior parte in salita. Quando arrivarono alla colonia, sempre accompagnati dai funzionari del governo brasiliano che agivano da guide, furono alloggiati in altre baracche di legno in attesa del rilascio dei loro lotti di terra.
Il giorno successivo, gli uomini, determinati, partirono per conoscere e aiutare a delimitare le terre acquistate dal governo. Le donne e i bambini rimasero nelle baracche mentre venivano gettate le fondamenta del sogno. Poiché erano tre famiglie, ognuna acquisì un grande lotto di 500.000 metri quadrati ciascuno, un'ampia area di terra coperta da una vegetazione rigogliosa e da fiumi che sarebbero stati testimoni della prosperità a venire. Avevano realizzato il sogno della proprietà tanto agognata da tutti. Ora non dovevano più arrendersi sempre e dividere il raccolto con il padrone terriero. Ora erano loro i padroni. Con orgoglio dicevano: "Desso, qua, in coesto paradiso, naltri ghe semo i paroni" tradotto "Eccoci qui, in questo paradiso terrestre, noi siamo i padroni"!
I primi anni furono molto difficili, con la deforestazione, la costruzione di case di fortuna e lo sfruttamento del terreno per la coltivazione di mais e grano. Il raccolto della prima stagione inaugurò un'era di miglioramento delle condizioni di vita, e la famiglia prosperò. Nel corso degli anni, crebbero non solo in numero, ma in ricchezza e successo, diventando un esempio dello spirito pionieristico che ha spinto così tanti immigrati italiani nella costruzione del Rio Grande do Sul.
Così, la storia di questa famiglia italiana si intrecciò con i paesaggi verdeggiante del Brasile, una narrazione di coraggio, determinazione e successo che echeggia attraverso le generazioni.