quinta-feira, 21 de junho de 2018

Emigrazione Veneta - Giovanni M. Zilio



L’epopea dell’emigrazione Veneta 
(tratto da un articolo del Prof. Giovanni Meo Zilio)



Negli anni appena successivi l’annessione all’Italia arrivò un’ondata di povertà mai vista in Veneto: nuove tasse – come la tristemente famosa “tassa sul macinato” – e la leva obbligatoria, che privò le famiglie venete dell’aiuto dei giovani, stroncarono l’economia contadina veneta.
Appena dopo l’unità d’Italia iniziò uno dei più grandi esodi nel mondo: l’epopea dell’emigrazione veneta. I veneti furono costretti ad abbandonare la loro terra e le loro case, in cerca di una nuova vita, dalle foreste del Brasile alle miniere del Belgio, era l’inizio di un’emigrazione dalle dimensioni bibliche: fra 1876 e 1901, su una popolazione di circa tre milioni, dovettero emigrare oltreoceano 1.904.719 Veneti




La prima emigrazione organizzata in partenza dal Veneto (in buona parte dalla provincia di Treviso e, in minor misura, dalla Lombardia e dal Friuli, risale al 1875. Infatti a partire da quell’anno cominciarono ad arrivare in Brasile – negli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paranà, Espirito Santo, e soprattutto nella cosiddetta “zona di colonizzazione italiana” ubicata nel Nordest del primo stato, che oggi ha per centro economico, commerciale e culturale la fiorente città di Caxias do Sul con circa 500.000 abitanti: miracolo di sviluppo e modello di “un altro veneto” trapiantato e cresciuto oltre oceano. Ad esso vanno aggiunte altre correnti emigratorie, soprattutto in Argentina e Uruguay, dove molti italiani erano già presenti da prima, e, in minor misura, in minor paesi come il Messico.
Le cause principali del fenomeno emigratorio furono, com’è noto, la miseria e l’emarginazione delle classi rurali dell’epoca, se non addirittura la fame, insieme al sogno della proprietà della terra da parte dei nostri contadini (allora veri “servi della gleba”), spesso ingannati da fallaci propagande interessate, favorite, a loro volta, dall’ignoranza commista alla speranza che è sempre l’ultima a morire. Ma va tenuto conto anche di quell’insop-primibile spirito di avventura, quell’attrazione verso il nuovo e il lontano che da sempre ha agito sull’umanità e che spesso viene trascurato dagli storici dell’emigrazione.




La traversata atlantica in quell’epoca (nel fondo delle stive) fu da sola una epopea che ancora è presente nella memoria collettiva, tramandata in episodi struggenti nei ricordi dei vecchi e nella copiosa letteratura popolare, soprattutto veneto-brasiliana (canti, poesie, racconti), che, a partire dalle celebrazioni del centenario della prima emigrazione “in loco” (1975), è esplosa qua e là anche in forme stilisticamente pregevoli. Così pure rimane nella memoria collettiva l’epopea delle inenarrabili condizioni di arrivo e di insediamento e le lotte della prima generazione per disboscare a braccia la montagna, per difendersi dagli animali feroci, dai serpenti, dagli indios, dalle malattie, per costruire dal nulla strade e abitazioni, per affrontare continuamente la paura che diventava un’ossessione…
Questa storia di illusioni e di sofferenze, di eroismo e di umiliazioni, questa “storia interna” della nostra emigrazione, che rappresenta il rovescio della storia esterna di cui, più che altro, si sono occupati gli studiosi, è ancora tutta da approfondire.



 Per quanto riguarda il sud del Brasile, che può essere considerato emblematico, un primo gruppo di emigrati arrivò, dopo indicibili peripezie e sofferenze a quella che oggi si chiama Nova Milano, nei pressi di Caxias do Sul. Dal porto di Porto Alegre essi proseguivano in barconi lungo il rio Caì e poi a piedi, per chilometri e chilometri, attraverso la selva, con le poche masserizie sulle spalle, facendosi strada a forza di “machete”, fino a raggiungere i terreni loro assegnati proprio nella foresta, a nord dei territori pianeggianti e più fertili occupati dalla emigrazione tedesca 50 anni prima. Si può immaginare il costo umano di tutto ciò dopo che essi avevano tagliato i ponti dietro di sé, vendendo i loro poveri averi prima di partire dall’Italia. 



Le tracce della prima colonizzazione si possono vedere ancora oggi in molti nomi di luoghi, come la citata Nova Milano, Garibaldi, Nova Bassano, Nova Brescia, Nova Treviso, Nova Venezia, Nova Padua, Monteberico…; mentre altri come Nova Vicenza e Nova Trento hanno cambiato successivamente i loro nomi originari nei nomi brasiliani di Farroupilha e Flores da Cunha in periodi caratterizzati da xenofobia. Tale xenofobia del governo centrale arrivò al punto che, negli anni dell’ultima guerra, a quei nostri immigrati che non sapevano parlare il brasiliano, fu proibito (pena l’arresto) di parlare la loro lingua veneta, con le conseguenze morali che è facile immaginare, oltre alle difficoltà pratiche (le quali spesso sfociavano nel tragicomico!) che tutto ciò produsse fra quella povera gente emarginata a cui era tolta perfino la parola…
Si tratta comunque di un fenomeno imponente – in Brasile come in Argentina, sia per estensione, sia per popolazione (nell’ordine dei milioni di discendenti), sia per la omogeneità e vitalità – il quale per più di un secolo è stato trascurato se non ignorato dal governo italiano e dalle sue istituzioni.




Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS




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