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quarta-feira, 26 de dezembro de 2018

Brasile venetofono e la prima emigrazione Giovanni Meo Zilio


Brasile venetofono e la prima emigrazione Giovanni Meo Zilio


Giovanni Meo Zilio, professore Emerito di Letteratura Ispano-Americana dell’Università di Venezia. Ha pubblicato saggi e articoli sull’argomento di cui è studioso.


1. Brasile venetofono e condizioni generali della prima emigrazione

La prima emigrazione organizzata in partenza dal Veneto (in buona parte dalla provincia di Treviso e, in minor misura, dalla Lombardia e dal Friuli, risale al 1875. Infatti a partire da quell’anno cominciarono ad arrivare in Brasile - negli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paranà, Espirito Santo, e soprattutto nella cosiddetta “zona di colonizzazione italiana” ubicata nel Nordest del primo stato, che oggi ha per centro economico, commerciale e culturale la fiorente città di Caxias do Sul con circa 500.000 abitanti: miracolo di sviluppo e modello di “un altro veneto” trapiantato e cresciuto oltre oceano. Ad esso vanno aggiunte altre correnti emigratorie, soprattutto in Argentina e Uruguay, dove molti italiani erano già presenti da prima, e, in minor misura, in minor paesi come il Messico. 

Le cause principali del fenomeno emigratorio furono, com’è noto, la miseria e l’emarginazione delle classi rurali dell’epoca, se non addirittura la fame, insieme al sogno della proprietà della terra da parte dei nostri contadini (allora veri “servi della gleba”), spesso ingannati da fallaci propagande interessate, favorite, a loro volta, dall’ignoranza commista alla speranza che è sempre l’ultima a morire. Ma va tenuto conto anche di quell’insop-primibile spirito di avventura, quell’attrazione verso il nuovo e il lontano che da sempre ha agito sull’umanità e che spesso viene trascurato dagli storici dell’emigrazione.

La traversata atlantica in quell’epoca (nel fondo delle stive) fu da sola una epopea che ancora è presente nella memoria collettiva, tramandata in episodi struggenti nei ricordi dei vecchi e nella copiosa letteratura popolare, soprattutto veneto-brasiliana (canti, poesie, racconti), che, a partire dalle celebrazioni del centenario della prima emigrazione “in loco” (1975), è esplosa qua e là anche in forme stilisticamente pregevoli. Così pure rimane nella memoria collettiva l’epopea delle inenarrabili condizioni di arrivo e di insediamento e le lotte della prima generazione per disboscare a braccia la montagna, per difendersi dagli animali feroci, dai serpenti, dagli indios, dalle malattie, per costruire dal nulla strade e abitazioni, per affrontare continuamente la paura che diventava un’ossessione…

Questa storia di illusioni e di sofferenze, di eroismo e di umiliazioni, questa “storia interna” della nostra emigrazione,

Per quanto riguarda il sud del Brasile, che può essere considerato emblematico, un primo gruppo di emigrati arrivò, dopo indicibili peripezie e sofferenze a quella che oggi si chiama Nova Milano, nei pressi di Caxias do Sul. Dal porto di Porto Alegre essi proseguivano in barconi lungo il rio Caì e poi a piedi, per chilometri e chilometri, attraverso la selva, con le poche masserizie sulle spalle, facendosi strada a forza di “machete”, fino a raggiungere i terreni loro assegnati proprio nella foresta, a nord dei territori pianeggianti e più fertili occupati dalla emigrazione tedesca 50 anni prima. Si può immaginare il costo umano di tutto ciò dopo che essi avevano tagliato i ponti dietro di sé, vendendo i loro poveri averi prima di partire dall’Italia.

Le tracce della prima colonizzazione si possono vedere ancora oggi in molti nomi di luoghi, come la citata Nova Milano, Garibaldi, Nova Bassano, Nova Brescia, Nova Treviso, Nova Venezia, Nova Padua, Monteberico...; mentre altri come Nova Vicenza e Nova Trento hanno cambiato successivamente i loro nomi originari nei nomi brasiliani di Farroupilha e Flores da Cunha in periodi caratterizzati da xenofobia. Tale xenofobia del governo centrale arrivò al punto che, negli anni dell’ultima guerra, a quei nostri immigrati che non sapevano parlare il brasiliano, fu proibito (pena l’arresto) di parlare la loro lingua veneta, con le conseguenze morali che è facile immaginare, oltre alle difficoltà pratiche (le quali spesso sfociavano nel tragicomico!) che tutto ciò produsse fra quella povera gente emarginata a cui era tolta perfino la parola...

Si tratta comunque di un fenomeno imponente - in Brasile come in Argentina, sia per estensione, sia per popolazione (nell’ordine dei milioni di discendenti), sia per la omogeneità e vitalità - il quale per più di un secolo è stato trascurato se non ignorato dal governo italiano e dalle sue istituzioni.

La stragrande maggioranza delle prime correnti immigratorie era composta di contadini che impiantarono nel nuovo territorio le colture e i metodi agricoli tipici delle loro zone di provenienza (a cui si aggiunsero artigiani e commercianti). La cultura che si impose sulle altre fu quella della vite con la conseguente industrializzazione del vino e degli altri derivati dell’uva, che ancor oggi rappresenta la maggior fonte di ricchezza dello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul, che rifornisce tutto il Brasile. 

Andando per le campagne si trovano ancora vitali certi antichi strumenti (da noi ormai quasi scomparsi) dell’agricoltura dell’800 e della vita domestica di allora (a Nova Padua, nei pressi di Caxias, il monumento all’immigrante, sulla piazza del paese, è rappresentato solennemente da una vera e propria “caliera de la polenta” su un imponente piedistallo). L’alimentazione nelle campagne è ancora sostanzialmente quella tradizionale del Veneto a cui si è aggiunto l’autoctono e immancabile “churrasco” (carne alla brace).
La religione è tuttora intensamente seguita e sentita, anche perché il clero cattolico e l’organizzazione religiosa hanno accompagnato, fin dal primo momento, le sorti degli emigranti. Basti pensare che le “cappelle” sono state fino ad oggi i principali centri comunitari nella “colonia” (leggasi campagna) non solo religiosi ma anche di organizzazione sociale e culturale, e che intorno ad esse si sono formate via via le parrocchie e i municipi. In anni recenti i villaggi dove non vi era un parroco stabile si poteva assistere a scene, per noi incredibili, come quella della popolazione riunita in un capannone che fungeva da chiesa, a celebrare i riti religiosi senza nessun sacerdote e sotto la guida di quello che viene chiamato il “prete laico”, con la partecipazione attiva e solenne degli anziani del paese.

Chi vive in “colonia”, e ha conservato per lo più il mestiere e le tradizioni dei primi emigranti, fino a poco tempo fa era ancora considerato come emarginato e guardato con sufficienza persino dagli stessi discendenti di veneti abitanti nelle grandi città. Solo da qualche decennio, da quando sono ripresi i contatti effettivi con l’Italia, si sta risvegliando ed estendendo una coscienza in positivo delle proprie origini (non più opaco, lontano mito da dimenticare) con una spinta a ritrovare la identità storica: una ricerca, spesso struggente, delle proprie fonti per ripristinare quel “cordone ombelicale” che era rimasto tranciato da oltre 100 anni.

Il fenomeno più imponente all’interno di questa “storia di immigranti senza storia”, come qualcuno l’ha malinconicamente definita, è il mantenimento, dopo un secolo, della propria lingua di origine (il veneto), a livello familiare, interfamiliare e, in determinate occasioni (feste, ricorrenze, giochi, riunioni conviviali, ecc.) anche a livello comunitario; con un grado di vitalità e di conservazione, nelle campagne, che spesso supera addirittura quello del Veneto d’Italia il quale, com’è noto, è ancora ben radicato fra di noi. Si tratta di quella che i dialettologi chiamano un’ ”isola linguistica”, relativamente omogenea, dove la lingua veneta ha finito col trionfare sul lombardo e sul friulano, estendendosi come una “koinè” interveneta all’interno di un contesto eterofono (il lusobrasiliano). Essa ci consente di ricostruire, come “in vitro”, dopo tre o quattro o anche più generazioni, la lingua dei nostri nonni e bisnonni, soprattutto per gli aspetti orali non documentati come la pronuncia e l’intonazione, o per l’uso di certi proverbi, modi di dire, canti dell’epoca. Così, attraverso la storia delle parole (quelle conservate, quelle alterate e quelle sostituite) possiamo ricostruire alcuni spaccati della storia (spesso commovente) di quelle comunità. Essa, a sua volta, rappresenta uno squarcio drammatico e appassionante della storia d’Italia e della storia del Brasile.

Chi scrive queste righe è un vecchio emigrante che ha provato personalmente quello che molte centinaia di migliaia di compatrioti hanno vissuto: testimone diretto della situazione di quanti, nell’ immediato ultimo dopoguerra, hanno attraversato l’oceano accalcati nella stiva di vecchie Liberty, residuato di guerra, dormendo in letti a castello di quattro o cinque cuccette disposte in verticale, con un caldo incredibile ed in condizioni infernali di promiscuità. Egli ha girato in lungo e in largo le Americhe per molti anni, dagli aridi altipiani del Messico fino alla desolata Patagonia argentina. Per molti anni in veste di emigrato e poi di studioso e di ricercatore. Come tanti altri emigranti ha vissuto in carne propria il dramma del trapianto, la mortificazione degli affetti, l’ ansia di tante illusioni, il naufragio di tante speranze. Non ignora quindi, accanto alla portata storica del fenomeno migratorio, il dolore, la fatica e il coraggio che lo hanno accompagnato, anche perché, pure lui, ha cominciato dalla gavetta - come si suol dire - svolgendo lavori manuali di sopravvivenza. Ma la sua storia personale è poca cosa rispetto alla storia generazionale delle nostre comunità che hanno vissuto, soprattutto nell’ immenso Brasile, un’epopea inenarrabile di lotte, sacrifici, in condizioni di vita infraumane (in particolare le prime generazioni); epopea trasmessa oralmente (perché nella maggior parte dei casi si trattava di gente che non sapeva leggere né scrivere) di padre in figlio, anzi di madre in figlia perché le donne, come sempre, sono le depositarie delle tradizioni più vitali ed essenziali. Le prime generazioni affrontarono, come si è detto, sacrifici inenarrabili, abbandonate nelle foreste; senza Lari e senza Penati, cioè senza casa e senza famiglia, costrette a sopravvivere in condizioni drammatiche. Persino senza la parola, come si è detto più sopra: senza parola non c’è identità, non c’è comunità né comunicazione, quindi non c’è vita che possa dirsi umana. Ma essi hanno resistito a denti stretti con dignità e coraggio malgrado le umilianti e brucianti condizioni di inferiorità.

Non solo nel Brasile, ma anche in Argentina, e altrove soprattutto i veneti, i lombardi e i friulani, i cosiddetti polentoni (si ricordi che “polenta”, nel rioplatense popolare, è passata a significare forza, coraggio) assieme ai solidi piemontesi ed agli industriosi e parsimoniosi genovesi, hanno fornito, con le luci e le ombre naturali in tutte le cose umane, un contributo di progresso al paese che li ha accolti. Essi hanno conservato nel cuore fin dall’ultimo quarto del secolo scorso il sogno ed il mito della madre patria, della madre-matrigna che li ha abbandonati per più di cent’anni. Loro hanno invece continuato a rimembrarla ed a sognarla nei filò interminabili delle stalle contadine, nell’accorata e discreta intimità familiare, nelle commosse riunioni comunitarie, nelle umili preghiere quotidiane.

Attraverso le generazioni hanno conservato incredibilmente la loro lingua, gli usi, i costumi, i riti, le feste, i balli, i giochi (il tresette, le bocce, la mora, la cuccagna). Giochi conditi da certe nostre espressioni paesane, ormai non più blasfeme, perché eufemistizzate, come “Ostrega!”, “Ostregheta!” o “Sacramenta!”. Si sentono ancora i canti comunitari di una volta, che noi in gran parte abbiamo perduto, e che li hanno aiutati moralmente a vivere, a sopravvivere: nei paesi più sperduti. Nelle piazze di alcuni paesi abbiamo troviamo, come monumenti, oltre alla ”caliera” della polenta, come già detto, la carretta o la carriola, la gondola veneziana, il leone di S. Marco (addirittura il simbolo del Municipio di Octavio Rocha, nel Rio Grande do Sul, rappresenta il leone di S. Marco che tiene stretto nella zampa il grappolo d’uva al posto del libro tradizionale!).

Quelle persone, con il sacco sulle spalle (con la valigia di legno in un secondo tempo e di cartone in un terzo), fin dal secolo scorso hanno alleviato la nostra pressione demografica, hanno reso un servizio storico all’Italia, ci hanno alleviati dalla fame, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, con le loro rimesse, ed oggi acquistano “in primis” prodotti italiani e quindi potenziano il commercio e l’economia del nostro paese. Si valuta in oltre 100.000 miliardi l’indotto proveniente dalla collaborazione economica dei nostri emigrati.

Questa gente è sangue del nostro sangue, gente che ha sofferto moralmente e materialmente l’emarginazione secolare e dalla quale abbiamo anche qualcosa da imparare o da reimparare: quei valori che oggi in gran parte si vanno dimenticando.



L’Italia, oggi, non può non onorare il suo debito secolare, storico, morale e politico.


Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS


sexta-feira, 21 de dezembro de 2018

A Grande Emigração Vêneta

A GRANDE EMIGRAÇÃO VENETA
Federação Vêneta de São Paulo

Diz Ulderico Bernardi, no seu livro "A catàr fortuna" ("Em busca de fortuna"):"Qualquer povo da Terra, se procurar na sua história, encontrará a experiência da emigração. Enquanto para alguns povos ela é atual, para outros pertence a uma época já superada. O Vêneto hodierno, onde quase não há família que não tenha um parente ou um conhecido emigrado, conjuga esses dois aspectos, pois vê chegarem imigrados de muitos países ao mesmo tempo que existem ainda vênetos que emigram, mesmo que temporariamente, seja como técnicos para os grandes trabalhos que as empresas italianas realizam no exterior, seja para oferecer a outros países da Europa sua apreciadíssima habilidade na produção de sorvete artesanal. Mas não se trata mais de emigração em massa, de famílias, de povoados inteiros de pobres camponeses, na maioria analfabetos ou quase, como foi na origem.
   É uma longa história, a da emigração vêneta, parte integrante do fluxo imponente que foi a emigração italiana. Nos cem anos que se seguiram à unificação nacional, estima-se que mais de vinte e três milhões de italianos conheceram os caminhos da emigração. Partiam dos antigos reinos desaparecidos, mas também das ricas províncias dos Sabóia, da fértil planície do Pó e dos montes desolados do Sul, dos territórios conquistados aos Habsburgos na Grande Guerra e das terras beneficiadas em que o sonho da propriedade se tinha dissolvido na agregação em latifúndios. Entre 1876 e 1925, em cinqüenta anos de adaptações políticas, aventuras coloniais, industrialização pesada, guerra na Europa e na África, já haviam partido quinze milhões de italianos: oito do Norte e sete do Sul. Fugiam da mortificação da pelagra, das taxas sobre o sal e sobre a moagem que encareciam demais até mesmo a polenta dos pobres, dos privilégios de uma burguesia urbana rapaz e absenteísta que odiava os camponeses pelo seu fervor religioso."
      O escritor vêneto Ippolito Nievo acusava os "progressistas da cidade": "Não temo afirmar que aquela cruzada do liberalismo contra o clero do campo foi uma injustiça, foi uma improntitudine contra a gente do campo e, como os curas e os padres eram os únicos intérpretes de sua inteligência (...) vilipendiar os seus padres era vilipendiar aquele que tinha fé, gritar pela sua morte foi o mesmo que atentar contra a moralidade e a religião de todo um povo."
   Meeiros, colonos, trabalhadores braçais, viviam sob a ameaça de perder a casa e o trabalho pela disdetta patronal no dia de S. Martinho, 11 de novembro, data que marcava o início do ano agrário e a renovação dos contratos.
       A dureza do trabalho diário naquela época é documentada pela importante Pesquisa agrária e sobre as condições da classe agrícola, que o Parlamento italiano iniciou em 1877 e cujos resultados, publicados entre 1880 e 1885, revelaram a condição desesperada dos trabalhadores nos campos italianos. O cálculo das horas de trabalho do camponês vêneto é informado assim:
       "... o camponês trabalha, no verão, das 4 da manhã às 8 da noite e, no inverno, das 7 da manhã às 5 da tarde; note-se, no entanto, que ambos os períodos de trabalho incluem duas horas de repouso, de modo que, em média, o camponês tem 14 horas de trabalho no verão e 8 no inverno, aí compreendido o tempo ocupado para ir e retornar do local de trabalho (que às vezes é distante) e calculando como horas de repouso aquelas passadas nas reuniões iemali" (isto é, as ‘filò’, ou seja, as vigílias noturnas no estábulo, ao calor dos animais, que na verdade eram horas de trabalho para mulheres e homens, aquelas ocupadas em fiar e estes em construir ou consertar implementos) ..."
       "As horas de repouso na cama, por outro lado, podem ser calculadas em 6, tanto no verão como no inverno, por causa das reuniões noturnas que se prolongam até entre 11 da noite e meia-noite, e das quais costumam participar todos, fuorché crianças e velhos. ... Talvez não exista nenhuma classe social que, como a dos camponeses, utilize assim longamente as crianças e obrigue as mulheres a dividirem os esforços com os homens."
        A agrura do trabalho ... era acompanhada do medo, para aqueles que não tinham a propriedade da terra, de perder casa e atividade. In agguato estava a miséria de viver na base da jornada, sem poder contar com algumas galinhas, com um porco, com uma horta, com aquele pouco de lenha que podia ser recolhido das árvores ao longo dos fossos, com um teto, malfeito talvez, mas seguro.
      Os emigrantes partiam em grupos de vizinhos, às vezes povoados inteiros. Os senhores falavam de "americomania" e talvez até vissem com algum alívio o esvaziamento do campo, o que livraria campos e praças dos arrendatários mais exigentes e obstinados nas reivindicações. O hábito mental da arrogância, denunciado por Nievo, os tornava, havia séculos, indiferentes às agruras dos "vilões", tidos na conta de não-pessoas, ignorantes, ávidos, sórdidos, teimosos como bodes e sempre hostis às novidades.
       O Brasil sempre foi um dos destinos mais importantes deste emigrantes. Dos 3,8 milhões de imigrantes que entraram no Brasil no período de 1870 a 1925, cerca de 1,5 milhões eram italianos. Isto significa que dez por cento de toda a emigração italiana do período destinou-se ao Brasil. Do ponto de vista do Brasil, a imigração italiana foi, por tempo longo tempo, a mais importante: no período considerado, uma terça parte do total de pessoas entradas no Brasil (os outros países importantes de proveniência foram Alemanha, Espanha, Portugal, Polônia, Rússia e, a partir de 1908, Japão) são imigrantes italianos. Mas em certos anos, o percentual de italianos na imigração total para o Brasil alcança quase oitenta porcento!
       O Estado de São Paulo foi o que recebeu a maior quota de italianos. Não dispomos de estatística exata. Mas como este estado recebeu, no conjunto, a metade de toda a imigração estrangeira para o Brasil, e como certas nacionalidades se concentraram mais pesadamente em outros estados (por exemplo, os alemães em Santa Catarina e Rio Grande do Sul, os poloneses e russos no Paraná, os espanhóis no Rio de Janeiro e assim por diante), pode-se raciocinar que o estado de São Paulo tenha recebido pelo menos a metade de todos os italianos que entraram no Brasil.
        Segundo o Ministério das Relações Exteriores da Itália, em 1966 o total de italianos e descendentes no Brasil era de 22.753.000 pessoas. E segundo a Embaixada da Itália no Brasil esse total havia subido para 25.000.000 no ano 2000.
        No Estado de São Paulo, e particularmente na cidade de São Paulo, muito mais que em outros estados brasileiros que receberam imigrantes italianos, duas circunstâncias, entre outras, causaram a perda da consciência das raízes italianas, a perda do sobrenome italiano e a perda da italianidade:
com os casamentos "inter-raciais" (de mulheres italianas com homens de diversas outras nacionalidades) muitos sobrenomes italianos desapareceram;
durante a segunda guerra, o medo de ser tratado como "inimigo" levou muitas famílias italianas a "aportuguesarem" seus sobrenomes.
       Mesmo assim, a estimativa do Consulado Italiano em São Paulo segundo a qual o total de italianos e descendentes, no estado, seja de apenas 6.000.000 parece-nos conservadora.
       É impossível, com os dados disponíveis saber quantos são os vênetos e descendentes no Brasil ou no Estado de São Paulo. A presença em São Paulo de imigrantes (e descendentes) provenientes de todas as regiões da Itália favoreceu o aparecimento de uma "raça italiana" local, resultante dos numerosos casamentos "inter-regionais". Muitos dos descendentes de vênetos da atual geração, em São Paulo, têm também ancestrais provenientes de outras regiões da Itália e não poucos têm ancestrais não-italianos (portugueses, alemães, japoneses, russos etc). É comum que esses vênetos mesclados de São Paulo, ao buscar a obtenção de uma segunda cidadania, optem pela cidadania italiana através do ancestral vêneto. Será que eles se consideram mais vênetos do que outra coisa?         Está aí um interessante tema que requer uma abordagem não apenas sociológica mas também psicológica ...



quinta-feira, 13 de dezembro de 2018

Sobrenomes Italianos Disponíveis no Centro de Pesquisas Genealógicas de Nova Palma



Sobrenomes Italianos Disponíveis no Centro de Pesquisas Genealógicas de Nova Palma
Município de Nova Palma
4ª Colônia Italiana do Rio Grande do Sul

Acervo do Padre Luiz Sponchiado, um dos maiores pesquisadores da colonização Italiana na América Latina









Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS

sábado, 8 de dezembro de 2018

Sobrenomes Italianos no Interior de São Paulo

Basilica di San Marco a Venezia


Chegaram em São Paulo no ano de 1891 provenientes de várias fábricas de produtos têxteis de Schio, na região do Vêneto. Nem todos desta lista eram nascidos nesse “comune”. 
Por ordem alfabética: 


ANDRIGHETTO;
BASSO; 
BELTRAME Eugenio; 
BELTRAME Guglielmo Luigi; 
BERTON; 
BICEGO; 
BONIVER;
BRESSAN;
CASARA; 
CERIBELLA;
CHEMELLO;
CHIARATI;
CISCATO;
CORRÀ; 
CRESTANA;
DAI ZOVI; 
DAL SANTO; 
DALLA COSTA Pietro; 
DALLA COSTA Stefano; 
DALLA VECCHIA; 
DANIELE;
DANIELI;
DE LUCA;
FABBIANI;
 FUCCENECCO; 
GAFFI; 
GHIOTTO Bortolo; 
GHIOTTO Vittorio; 
LAGO; 
LOSEO Angela; 
LOVATO; 
LUCCARDA;
MAGNANI;
MALAGNINI;
MARTINUZZI;
MELO; 
MENIN Girolamo; 
MENIN Pietro; 
NAZZO; 
PASQUALOTTO;
PATRONCINI Giovanni; 
PATRONCINI Luigi; 
PEZZELATO;
PIAZZA; 
POLI; 
RABBITO;
RENZI; 
ROMAN; 
ROSSI; 
SALIN; 
SCAPIN; 
SCARAMUZZA;
SEGALA; 
SELLA; 
TESSARI;
TESSARO;
TESTA; TOVAGLIA; 
USTORIO;
VICENTIN Antonio; 
VICENTIN Girolamo; 
ZALTRON Giovanni; 
ZALTRON Giovanni; 
ZALTRON Giuseppe; 
ZAMBELLI
 ZANONI


Dr. Luiz Carlos B. Piazzetta
Erechim RS

quarta-feira, 5 de dezembro de 2018

A Imigração Italiana para o Rio Grande do Sul


A Imigração Italiana para o Rio Grande do Sul no final do século XIX 

Miriam de Oliveira Santos 


Vários fatores concorreram para a grande imigração transatlântica, que levou milhares de italianos para o continente americano. Um dos principais é a maneira por meio da qual foi feita a Unificação Italiana. Com a dissolução do Império Romano do Ocidente (476 d.C.), acontece a fragmentação da Itália, que se transforma em uma região dividida em várias unidades políticas independentes entre si. Após o Congresso de Viena, em 1815, estas regiões passaram a ser dominadas por austríacos, franceses e pela 
Igreja Católica. Os reinos e ducados da Lombardia-Veneza, Toscana, Parma, Módena e Romagna estavam submetidos ao domínio austríaco. O Reino das Duas Sicílias pertencia à dinastia francesa dos Bourbon. O Reino do Piemonte-Sardenha era autônomo, governado por um monarca liberal e os Estados da Igreja pertenciam ao Papa. 
No início do século XIX, o norte da Itália passou por transformações sociais e econômicas desencadeadas pelo desenvolvimento industrial, as cidades cresceram e o comércio se intensificou.
Em 1848, contando com o apoio da burguesia, o Rei Carlos Alberto, do Reino do Piemonte-Sardenha fez a primeira tentativa de unificação, declarando guerra contra a Áustria. O rei foi vencido deixando o trono para seu filho Vítor Emanuel II. 
No governo de Vítor Emanuel II o movimento a favor da unificação da Itália foi liderado pelo seu primeiro-ministro, o Conde de Cavour. Com o apoio da França, em 1859, Cavour deu início à guerra contra a dominação austríaca. Alcançando expressivas vitórias, conseguiu anexar ao reino sardo-piemontês as regi- ões de Lombardia, Parma, Módena e Romagna. 
Havia outros grupos que também lutavam pela unificação italiana, mas com a intenção de transformar o país em uma República. Mazzini e Garibaldi foram os líderes mais conhecidos desta corrente. Em 1860, Guiuseppe Garibaldi alia-se a Cavour e, liderando um exército de mil voluntários, conhecidos como camisas vermelhas, ocupou o reino das Duas Sicílias, afastando do poder o representante da dinastia dos Bourbon, Francisco II. Em março de 1861, dominando quase todo o território italiano, Vítor Emanuel II foi proclama- do Rei da Itália. 
É importante notar que a Unificação Italiana ocorreu apenas alguns anos antes da grande imigração para o Brasil, e que não foi de modo algum um movimento único e consensual. A Unificação acontece em 1861, mas Veneza só foi anexada em 1866, Roma em 1870. A região de Trento só foi incorporada à Itália Unificada após a 1a Guerra Mundial em 1919 e a questão dos Estados Pontifícios arrastou-se por décadas, sendo resolvida apenas em 1929 com a assinatura do Tratado de Latrão, já no governo fascista. Em função disso a capital do Reino da Itália de 1861 até 1866 foi Turim, depois Florença (1866 até 1870) e, só então, Roma. 
Dentre os numerosos problemas gerados pela unificação (1848-1870), o que se apresentou como mais urgente foi o de tornar homogêneo um território muito diferente política e economicamente. Não foi à toa que D’Azeglio, um dos mentores da unificação, afirmou: “Nós fizemos a Itália: agora temos que fazer os italianos”. Segundo Ianni (1972:32) “(...) até não muito tempo milhares de contadinisó no exterior adquiriam consciência de italianos e deixavam de ser sicilianos, ou napolitanos ou vênetos”. Ou seja, após a Unificação acontece uma construção da nacionalidade italiana, dentro e fora da Itália. 
Ainda na década de 60 do século XIX, antes de concluída a unificação, a supressão das alfândegas regionais, a oferta de produtos industriais a preços reduzidos e o desenvolvimento das comunicações haviam destruído a produção artesanal, atingindo os pequenos agricultores, que complementavam as suas rendas com o artesanato familiar ou o trabalho em indústrias artesanais existentes no campo. 
A unificação alfandegária, impôs à toda a Itália o sistema alfandegário da Sardenha, que tinha as taxas mais baixas, e fez com que as economias regionais, que eram mais ou menos fechadas e até então conseguiam manter certo equilíbrio, sofressem um violento baque. Também a disparidade econômica do Norte, que se industrializou mais cedo, e do sul, predominantemente agrícola, agravou o quadro econômi- co do país. 
Preocupado em obter recursos para a realização de obras públicas, como ferrovias, o governo italiano tomava medidas impopulares, como o imposto sobre a farinha, que atingia duramente os pobres. Nas décadas de 70 e 80 no final do século XIX, várias decisões desse tipo aumentariam os problemas. 
No entanto, a unificação política e aduaneira impulsionou a industrialização, que se intensificou no decênio de 1880-1890. O Estado reservou a produção de ferro e aço para a indústria nacional, favorecen- do a criação da siderurgia moderna. Protegida pelo Estado, a siderurgia se concentrava ao norte, mas sua produçãonãoerasuficienteparaomercadointerno,oqueexigiaimportações. Aindústriamecânicacresceu mais depressa, especialmente as de construção naval e ferroviária, máquinas têxteis e ligadas à eletrificação, principalmente motoreseturbinas. Apartirde1905,aindústriaautomobilísticadeTurimconseguiuexcelen- tes resultados. Também protegida, a indústria têxtil era a única com capacidade de conquistar mercados externos. A falta de carvão estimulou a produção de energia elétrica. O problema mais grave estava na total concentração do processo de crescimento no norte, enquanto o sul permanecia agrário. 
Esta situação econômica fez com que houvesse uma crise na Itália durante o período final do século XIX, crise esta que não abalou igualmente todas as regiões. O norte foi a primeira área a ser atingida, pois ali começou a se desenvolver a industrialização, deixando os agricultores que complementavam sua renda com o trabalho artesanal sem emprego e sem ter mercado para colocar seus produtos, que não podiam competir com os feitos pelas fábricas locais ou com os importados. Por isto, o norte da Itália forneceria as primeiras grandes levas de emigrantes, e o sul só viveria o processo de emigração mais tarde, principalmente a partir do início do século XX. 
A aplicação de formas administrativas típicas do Reino de Savóia provocou com o tempo o agrava- mento das diferenças já existentes entre as regiões da Itália, criando as condições para um grande movimento migratório de classes rurais para os países das duas Américas entre o fim do século XIX e o início do século XX quando muitos milhões de italianos emigraram. Em 1902, através do decreto Prinetti, o Comissariado Geral da Emigração na Itália proibiu a emigração subvencionada para o Brasil. 
Este decreto refletia o imenso debate que a imigração provocou na Itália, debate que podemos acompanhar pela sua repercussão nos jornais. 
Ao analisar os jornais vênetos do período 1861-1914, Filipuzzi (1976) demonstra que a emigração era vista como a única saída possível em face do desemprego e da miséria e ao mesmo tempo as colônias agrícolas do Brasil são pintadas como se fossem o Paraíso na Terra. 
É significativo que as fazendas de café de São Paulo não sejam nem sequer mencionadas, especial- mente porque é para esta região que se dirige o grosso da imigração italiana para o Brasil. 
Enquanto a elite econômica da Itália tentava reter o êxodo de mão-de-obra, a Igreja incentivava e abençoava seus fiéis, incumbindo-os de serem no mundo portadores da boa-nova. Dom João Batista Scalabrini, bispo de Piacenza, na Emilia Romagna, se preocupou com a assistência espiritual dos emigrados italianos, fundando uma sociedade, logo transformada em Congregação Religiosa para assistência aos emigrantes. Dom Geremia Bonomelli, analista e crítico da política italiana, o pensador maior da emigração da Itália para o mundo, combatia a exclusão, a exploração imposta pelo poder econômico e político, defendendo o direito de os pobres e explorados buscarem seu destino, liberdade e dignidade através do direito de emigrar. 
Sob o aspecto econômico e social o período decorrido entre a Unificação e a 1a Guerra Mundial caracterizou-se por um crescimento geral da economia italiana, favorecida pela conjuntura internacional po- 
sitiva que permitiu à Itália ajustar as próprias finanças, reorganizar a administração pública e desenvolver setores essenciais ao desenvolvimento industrial. As condições sociais do país, caracterizado por uma disparidade entre as áreas rurais e urbanas, marcaram os primeiros anos da sua industrialização e os primei- ros passos para a organização social moderna, com a formação de partidos políticos o emergir de tensões sociais que tiveram uma ampla influência nos sucessivos eventos históricos italianos. 
Às vésperas do primeiro conflito mundial a Itália entrou na guerra ao lado das Potências Aliadas, França, Grã-Bretanha e Estados Unidos. Após a Conferência de Paz de Versailles (1919) a Itália con- quistou as regiões setentrionais que ainda faltavam para completar o processo de unificação nacional, Trentino, Alto Adige e Venezia Giulia.No entanto a região da Dalmácia, também ambicionada, permane- ceu ligada à Iugoslávia. 
Vitoriosa na guerra, porém economicamente destruída, a Itália foi sacudida por uma série de agita- ções. Surgem nesse período algumas associações políticas que terão uma influência decisiva no destino do país pelos próximos decênios, o Partido Popular (1919) de Don Sturzo, que no futuro daria origem à Democracia Cristã, o Partido Socialista, o Partido Comunista de Gramsci (1921), e os Grupos de Com- bate de Mussolini (1919) que depois de 1921 transformou-se no Partido Nacional Fascista, levando Mussolini ao poder. 
A crise da Itália no pós-guerra e a incapacidade do parlamentarismo e do liberalismo em conter o avanço comunista possibilitou a ação dos fascistas. Em 1926 com a extinção de todos os outros partidos teve início o período do regime fascista. Inspirado numa política autárquica, de cunho nacionalista, o regime fascista introduziu mudanças radicais na vida do país, limitando a liberdade política. 
Na política exterior o governo Mussolini buscou uma afirmação de prestígio por meio de uma política expansionista que culminou na aliança com a Alemanha (Pacto de Aço de 1939), e a entrada na Segunda Guerra Mundial (1940-1945) contra as Potências Aliadas. Deposto após o desembarque anglo-ameri- cano na Sicília, em 1943, Mussolini refugiou-se no norte da Itália, onde foi preso e fuzilado nos últimos dias da guerra em 1945. 
Tanto a ascensão do fascismo, quanto a entrada na segunda guerra mundial propiciam a criação de um novo fluxo emigratório, radicalmente diferente daquele do final do século XIX e das primeiras décadas do século XX. Neste período a migração é de indivíduos isolados, citadinos e com certa escolaridade, enquanto no fluxo migratório anterior verificava-se a predominância de famílias campone- sas em sua maioria analfabetas ou com baixo grau de instrução, pois só em 1879 a instrução primária torna-se obrigatória na Itália. 
A massificação da alfabetização acontece a partir de 1931, todavia já é significativa desde 1921. No entanto na época da grande imigração para o Rio Grande do Sul, nas décadas de 70 e 80 do século XIX, o analfabetismo ainda era a regra. 
A Itália era um dos países mais pobres e populosos da Europa, com enorme oferta de mão-de-obra. As guerras para a Unificação, a ocupação por sucessivos exércitos, o serviço militar por três anos consecu- tivos, foram fatores que contribuíram para a desorganização da unidade familiar de trabalho e para a pauperização do pequeno agricultor, além das formas tradicionais de sujeição do campesinato aos proprie- tários de terra. Por outro lado, a industrialização da Itália Setentrional não era capaz de absorver toda a mão-de-obra disponível, o que explica a opção pela migração. 
Delineadas as condições em que a massa de migrantes se encontrava na Itália e os motivos da sua partida, buscaremos agora analisar a recepção que eles tiveram no Rio Grande do Sul. 
Depois de 1870, o governo imperial incentivou a vinda de colonos italianos para o Rio Grande do Sul. Pequenos cultivadores procedentes em sua maioria do Tirol, do Vêneto e da Lombardia 
estabeleceram uma série de colônias, das quais a de Caxias foi a mais importante. A atividade econômica dos italianos, além de seguir alguns caminhos semelhantes a dos alemães, espe- cializou-se no cultivo da uva e na produção do vinho. Entre 1882 e 1889, em um total de 41.616 imigrantes que ingressaram no Rio Grande do Sul, 34.418 eram italianos. (FAUSTO 2000: 241-2) 
A colonização italiana e alemã no Rio Grande do Sul fez parte de um projeto geopolítico do governo imperial brasileiro, que ocorreu no final do século XIX e início do século XX e utilizava a imigração para preencher os chamados “vazios demográficos” do Sul do país. No pós-independência há uma decisão de concentrar a colonização na região sul como uma decisão geopolítica, de consolida- ção de fronteiras. Neste contexto, os indígenas que ocupavam aquelas terras não eram pensados como nacionais ou brasileiros. 
Além dessa função estratégica e geopolítica, a imigração foi planejada como um processo de substituição não só do trabalho escravo pelo trabalho livre, mas principalmente como uma substituição do negro escravo pelo branco europeu em um processo de colonização baseado na pequena propriedade. Nessa perspectiva, a escravidão era vista como uma forma arcaica de produção que não se coadunava com a modernidade, enquanto a colonização era vista como um processo civilizatório. 
No início do século XX, com a aceitação em nível oficial da tese do branqueamento que apostava na imigração e na miscigenação como forma de “branquear” a população brasileira, houve um apoio maciço à imigração européia e a defesa irrestrita de uma imigração de brancos oriundos da Europa. Ramos (1994) observa que enquanto a preocupação do Império era aumentar o número de brancos no país a da República era miscigenar os imigrantes com a população mestiça para branqueá-la. 
Importa notar que a política imigratória e seus objetivos alteram-se ao longo do tempo como ressalta Carneiro (1950:10): 
(...) há a distinguir duas políticas de imigração: (1) a política do governo imperial, criando núcleos coloniais de pequenos proprietários, num prosseguimento da velha idéia colonizadora, inaugurada por D. João VI, com a fundação de Nova Friburgo; e (2) a política dos fazendeiros, que querem imigrantes para a lavoura, à medida que vêem o braço escravo escassear. 
Com a lei de terras de 1850 a terra foi transformada em mercadoria e cessou a distribuição gratuita para os imigrantes. Este fato despertou o interesse da iniciativa privada. Assim, ao lado das colônias impe- riais e provinciais surgiram colônias particulares (IOTTI, 2001: 24). 
As primeiras colônias na encosta superior do nordeste do Rio Grande do Sul, foram as de Conde d’Eu e Dona Isabel, na região onde atualmente estão localizados respectivamente, os municípios de Garibaldi e Bento Gonçalves. Estas colônias foram criadas pela presidência da província em 1870, antes que se iniciasse o processo de imigração italiana no estado. Para ocupá-las, o governo provincial firmou contrato com duas empresas privadas, que deveriam introduzir quarenta mil colonos em um prazo de dez anos. 
No entanto, as dificuldades encontradas fizeram com que apenas um pequeno número de colonos fosse assentado. Vários foram os motivos que contribuíram para este quadro. Na Europa Central, e em especial na Alemanha, havia uma prevenção generalizada contra o Brasil, que era visto, especialmente depois da publicação das memórias de Thomas Davatz,como um local onde os imigrantes sofriam privações. 
Além disso, o governo provincial pagava menos para os transportadores do que o governo central, e os imigrantes preferiam ficar no sopé da serra, nas áreas já colonizadas. Por isso em 1874 só dezenove lotes da colônia Conde d’Eu estavam sendo cultivados, com apenas setenta e quatro pessoas vivendo no 
local. Em função desse quadro, o governo provincial desistiu de administrar a colonização da área e repas- sou-a para o governo central. 
Foi a partir de 1875, sob a administração da União, que chegam as primeiras levas de italianos para Conde D’Eu e Dona Isabel. A área dessas colônias encontrava-se limitada pelo rio Caí, os campos de Vacaria e o município de Triunfo, sendo divididas entre si por um caminho de tropeiros . 
Nesse mesmo ano foi criada a colônia Caxias, no local chamado pelos tropeiros que subiam a serra em direção a Bom Jesus de “Campo dos Bugres”. Essa colônia limitava-se com Nova Petrópolis, São Francisco de Paula, o rio das Antas e com as colônias de Conde d’Eu e Dona Isabel. 
As primeiras levas de imigrantes vieram do Piemonte e Lombardia, e depois do Vêneto. Quando começou a imigração do Sul da Itália, em 1901, as terras disponíveis no estado já estavam quase que totalmente ocupadas e, por isso, no Rio Grande predominaram os italianos vindos do norte. 
Falando sobre a colonização do Rio Grande do Sul, na segunda metade do século XIX, Woortmann esclarece: 
O processo de ocupação pelos colonos interessava ao capital num duplo sentido: a valorização das terras e a comercialização da produção. Realizando o objetivo da Lei de Terras, datada de 1850, a colonização transforma terras devolutas em mercadoria, cria um campesinato parcelar ao mesmo tempo que elimina o posseiro (e os grupos indígenas, exterminados no bojo do processo), e transfor- ma a propriedade no fundamento da subordinação do capital (1988: 99). 
Ou seja, a imigração no Rio Grande do Sul foi dirigida para a colonização, que por sua vez foi pensada como um processo de preenchimento de áreas não ocupadas economicamente. Roche nos lembra que além de preencher os vazios demográficos e econômicos, as colônias tinham uma função exemplar: 
(...) as colônias eram fundadas para balizar e preparar a abertura das estradas que subiriam o escarpamento da serra. Invadiam a frente florestal além da zona de povoamento luso-brasileira e formavam grande número de núcleos agrícolas cujos intervalos seriam ocupados, pouco a pouco, pela população de origem nacional, que a prosperidade exemplar das colônias oficiais atrairia (Roche, 1969:112). 
Essa colonização dá origem à formação de um novo tipo de campesinato no Brasil, que, por sua vez, engendra a construção de núcleos urbanos e de um pequeno mercado regional. 
O objetivo dos agentes de colonização era trazer para o Brasil famílias de agricultores brancos. O processo de recrutamento para a colonização no norte da Itália só se efetivava quando se tornava mais difícil trazer alemães, que eram vistos como agricultores eficientes e como o ideal para a colonização no Rio Grande do Sul (SEYFERTH, 2001). 
Parte do campesinato europeu emigrou para a América em busca de novas terras. Esses campone- ses italianos adquiririam, ao chegar ao nordeste do Rio Grande do Sul, a identidade de colonos, isto é, proprietários de uma fração de terra denominada colônia. Segundo Seyferth (1993:38): “No seu significado mais geral, a categoria colono é usada como sinônimo de agricultor de origem européia, e sua gênese remon- ta ao processo histórico de colonização (...) e ainda” A categoria colono foi construída, historicamente como uma identidade coletiva com múltiplas dimensões sociais e étnicas (SEYFERTH,1993: 60)” . Sendo assim, a palavra colono, que era a designação oficial para o imigrante que adquiria um lote de terra em um projeto de colonização, converte-se em um símbolo de diferenciação étnica. 
Analisando os aspectos econômicos da colonização italiana para o Rio Grande do Sul, Moure (1980: 96) afirma que a imigração italiana seguiu três etapas básicas: 
(a) o estabelecimento dos imigrantes em moldes de uma agricultura de subsistência (1875-1910); (b) o desenvolvimento de atividades vitivinicultoras (1910-1950), onde a comercialização de exceden- tes de produção começa a especificar a área de colonização italiana; e (c) a instalação de coopera- tivas e empresas de industrialização capazes de aproveitar a produção local, gerando, a exemplo da zona colonial alemã, redefinições ao nível de mercado e nas relações de produção da pequena pro- priedade (...). 
Enquanto a primeira fase é quase exclusivamente rural, a partir da segunda o núcleo urbano ganha importância e passa a ser preponderante na terceira fase. No decênio 1950-1960 no Rio Grande do Sul, como aliás em todo o território nacional, a população urbana aumentou de maneira expressiva em detrimento à rural. Uma possível explicação para isso é o surto de industrialização desencadeado após a 2a Guerra Mundial e consolidado entre 1950 e 1960. 
Gostaria de sublinhar que esse processo histórico imprimiu certa marca na representação da identi- dade, memória e tradição da população do Rio Grande do Sul. É através dele que surgiu uma cultura que não éadosdoisEstadosNacionaisenvolvidosnoprocesso,masumamescladeambas. Aochegaraoterritório brasileiro, o imigrante italiano reelaborou sua identidade, definiu seus amigos e inimigos, delimitou imaginari- amente seu território, estabelece sua ordem social e familiar, e redefine seus modelos de conduta. 
Bibliografia 
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IOTTI, Luiza Horn. (2001) Imigração e Colonização: legislação de 1747 a 1915. Porto Alegre / Caxias 
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Antropológico 91
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Brasília: CNPD
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NOTAS 
·      Mestre em Ciência Política pela Universidade Federal do Rio Grande do Sul, Doutora em Antropologia Social pela Universidade Federal do Rio de Janeiro e Professora da Faculdade Salesiana Maria Auxiliadora.
Camponeses.
A ponto de uma autora ítalo-americana afirmar em um livro sobre a diáspora italiana (Gabaccia, 2000) que os imigrantes italianos foram encaminhados para plantações de café no Rio Grande do Sul e Santa Catarina. Aliás o texto original demonstra perfeitamente que a autora não compreendeu a existência de dois diferentes tipos de imigração italiana para o Brasil: a de colonização e a de braços para as fazendas de café. 
 Estas regiões enviaram vários colonos para o Brasil, que aqui chegavam com o passaporte austríaco. 

Colono alemão que participou da revolta de Ibiacaba, publicou, ainda ano século XIX, um livro sobre o trata- mento que os colonos recebiam nas fazendas de café paulista. Ver Davatz (1972).